Arte al femminile (60)

Il termine “Gilda” (dal latino medievale “gilda o gelda”, di etimo incerto) indicava una tipologia associativa nata in Inghilterra nel IX° secolo, che comprendeva chi condivideva una situazione lavorativa o posizione sociale, con lo scopo di mutua difesa, di assistenza reciproca e valorizzazione degli eventuali manufatti. La Gilda di San Luca era una delle corporazioni di artisti e artigiani attivi soprattutto durante il periodo barocco nelle Fiandre e nei Paesi Bassi. La Corporazione era dedicata a San Luca evangelista, patrono degli artisti, che, secondo Giovanni Damasceno, dipinse la figura della Madonna e rappresentazioni di San Paolo e San Pietro. L’appartenenza a una corporazione era richiesta obbligatoriamente per la vendita di opere d’arte o per l’assunzione di apprendisti nelle botteghe. Pochissime donne riuscivano a essere ammesse in una corporazione e dovevano sostenere una prova di ammissione molto severa, sottoponendosi al giudizio dei governatori della Gilda stessa. Gli Ebrei erano categoricamente esclusi da ogni Gilda. Sara van Baalbergen è stata la prima donna olandese a essere accettata, ancora giovanissima, in una Gilda, quella di Haarlem.

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Sara van Baalbergen è una pregevole artista fiamminga, di cui si sono perse le tracce. Nasce a Haarlem nel 1607 e la troviamo ammessa in base a fonti ufficiali, prima donna in assoluto, alla Gilda di San Luca della sua città nel 1631 (seguita poi da Judith Leyster). Vi risulta iscritta anche nel periodo 1634-1638, il che vuol dire che le viene riconosciuto un ruolo ufficiale di artista e che gode già di fama pubblica. Nel 1634 sposa il pittore Barent van Eysen, seguace di Vincente van der Vinne (specialista in nature morte e pittura di genere). Muore a 31 anni, nel 1638.

Difficile l’attribuzione delle sue opere, anche perché, dopo il matrimonio, ha collaborato con il marito, che firmava da solo le varie opere. Pare che anche lei fosse specializzata in nature morte, sia composizioni floreali che composizioni con oggetti di vario tipo, secondo gli insegnamenti di van der Vinne. (v. esempio)

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Arte al femminile (59)

In Olanda nel XVII° secolo la pittura era tenuta in grande considerazione. Tutti erano un po’ “collezionisti” e anche gli agricoltori avevano case piene di quadri, secondo quanto scrive John Evelyn nel 1641. Quella dell’artista era una professione altamente apprezzata, tanto che chi aveva successo godeva di un notevole benessere economico.

Contemporanea di Clara Peeters è Judith Leyster, altra importante rappresentante della pittura del tempo.

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Judith Leyster (“stella polare”) nasce a Haarlem nel 1609, ottava figlia del birraio e tessitore Jan Willemszoon e di Trijn Jaspersdr. Suo padre proviene da Anversa, nel 1592 diventa membro della Chiesa riformata, nel 1624 dichiara bancarotta, per cui la famiglia si trasferisce nelle vicinanze di Utrecht. Judith manifesta sin da giovane grande talento e viene mandata a scuola di pittura da Frans de Grebber, diventa poi apprendista nel laboratorio di Frans Hals, ma il fatto non è sicuro. A 18 anni è citata come esponente di spicco della città di Haarlem dal cronista e poeta Samuel Ampzing, che la definisce “audace e intelligente”. La sua prima opera è datata 1629. Nel 1633 è accolta nella Gilda di San Luca della sua città, seconda donna registrata dopo Sara van Baalbergen. Viene riconosciuta come “maestra d’arte” e può impartire lezioni, ottenendo il diritto ad avere un proprio laboratorio. Da alcuni documenti risulta che Hals abbia dovuto pagare a Judith una multa di tre fiorini, per avergli sottratto uno studente. Nel 1636 sposa il pittore di successo Jan Miense Molenaer. Il matrimonio la costringe a ridurre la propria attività, sia perché ha 5 figli ( solo due sopravvissuti sino all’età adulta), sia perché assiste il marito nel suo lavoro. Solo due opere sono datate dopo il 1635: due illustrazioni di un libro sui tulipani del 1643 e un quadro del 1652. Dal 1637 al 1649 risiede ad Amsterdam, la ritroviamo poi a Haarlem e di nuovo ad Amsterdam nel biennio 1655-1656. Ritornata definitivamente a Haarlem, vi rimane sino alla morte nel 1660.

Judith si specializza in generi non comuni alle donne di allora: ritratti e soggetti di genere (persone che suonano, che si divertono in taverna, bambini che giocano, scene di vita domestica). Dipinge anche nature morte con fiori e frutta. Suggestive e particolari sono le scene notturne, in cui sperimenta effetti di ombra, di luce e buio. La sua passione per la musica si manifesta nei numerosi dipinti con personaggi che suonano. La sua firma è il monogramma JL con una stella a cinque punte.

Famosa in vita, è stata a lungo dimenticata: viene casualmente riscoperta nel 1893, quando al Museo del Louvre si scopre che un quadro attribuito a Frans Hals è in realtà opera sua.

Sue opere si trovano nel Rijksmuseum di Amsterdam, nel museo Frans Hals di Haarlem, nel Nationalmuseum di Stoccolma, nel Mauritshuis de L’Aia e nella National Gallery of Art di Washington.

Arte al femminile (58)

Anche nei Paesi Bassi il Seicento è chiamato il “secolo d’oro” della pittura: una ricca borghesia si sta affermando e ha fatto propria l’etica calvinista di una vita austera e laboriosa. C’è il desiderio di avere in casa opere d’arte, che rispecchino la realtà del tempo e possano essere anche un proficuo investimento. Paesaggi, interni di abitazioni, momenti della vita domestica, ritratti sono i soggetti preferiti.

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Clara Peeters, pittrice fiamminga, nasce nel 1594 ad Anversa. Poco si sa della sua vita. Gli Archivi di Anversa nominano una Clara Peeters, figlia di Jan Peeters, battezzata il 15 maggio 1594. Un secondo documento indica un matrimonio tra Clara Peeters e Hendrick Joosen il 31 maggio 1639. La troviamo ad Amsterdam nel 1611 e all’Aia nel 1617. S’ipotizza che abbia diretto una piccola scuola per artisti. Il primo dipinto di Clara, datato e firmato, risale al 1608, quando ha 13-14 anni. La raffinatezza compositiva e la tecnica indicano una grande abilità artistica. La qualità di questo lavoro rivela la presenza di un maestro alle sue spalle, che gli studiosi ritengono sia Osias Beert. Le maggiori produzioni risalgono agli anni 1607-1621. L’ultima tela la dipinge nel 1657. Muore probabilmente ad Anversa nel 1659.

La sua specialità sono nature morte: tavole imbandite con piatti pieni di cibo, bicchieri e bottiglie di vetro con bevande, coltelli con manici ornati, raffigurazioni molto realistiche di animali. In molte delle sue opere usa degli oggetti inclinati per rappresentare la profondità al di là del piano del quadro. La sua tavolozza si distingue per essere abbastanza monocromatica, con un basso angolo di visione, un formato compatto, una pennellata meticolosa e raffinata. Particolarmente curati sono i riflessi di luce sugli oggetti metallici: monete, coppe, piatti di peltro ecc. Curiosi i dipinti che raffigurano deliziose torte. Clara ha incluso frequentemente piccoli autoritratti negli spazi di luce dei suoi dipinti, come una specie di auto-pubblicità. Probabilmente è stata una pittrice di successo e alcuni aspetti dei suoi quadri danno l’impressione che abbia lavorato per ricchi collezionisti: il formato di alcune opere è più grande del normale e raffigura oggetti costosi, monete e gioielli.

Alcuni dei suoi primi lavori sono al Prado, altri fanno parte di pregevoli collezioni private. Un bel dipinto si può ammirare nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze (“Vaso di fiori, frutta in un piatto e scoiattolo”).

Arte al femminile (57)

L’Inghilterra dalla fine del ‘500 agli inizi del ‘600 presenta una situazione economica solida e di conseguenza una fioritura delle arti e delle lettere: il teatro in particolare conosce un periodo di grande splendore, grazie a William Shakespeare. Esther Inglis Kello si colloca in questo periodo.

Esther_Inglis_Mrs_Kello_1595 017912 007757 index Argumenta psalmorum Davidis. 1608.  images 023357

ESTHER INGLIS è famosa come miniaturista, scrittrice, calligrafa e ricamatrice, donna di talento e di cultura. Nasce nel 1571 a Londra (?) o a Dieppe (?) da Nicholas Langlois e Marie Pressot. I genitori, ugonotti di origine francese, sono emigrati in Scozia forse intorno al 1569, per sfuggire alle persecuzioni religiose che devastavano il loro paese. Essi sono probabilmente legati al pastore protestante Jean Langlois, martirizzato a Lione nel 1572. Langlois diventa Maestro nella Scuola Francese di Edimburgo, mentre la moglie è un’esperta calligrafa e si occupa di trascrizioni. Esther viene educata dal padre nelle materie umanistiche, mentre dalla madre apprende l’arte della calligrafia. A 20 anni sposa Bartolomeo Kello di Leith, scozzese, pastore protestante e funzionario ministeriale, con un difficile passato alle spalle: dal 1606 al 1615 i due vivono a Essex, per tornare poi ad Edimburgo. Esther spesso non usa il cognome del marito, al fine di mantenere la propria identità artistica. Il matrimonio risulta ben riuscito, nonostante i due siano costantemente afflitti dalla povertà. Hanno sei figli, quattro dei quali giungono all’età adulta, caso poco frequente in quei tempi di forte mortalità infantile.

Esther firma sempre i propri lavori, che includono anche vari autoritratti che la rappresentano nell’atto di scrivere. Lavora parecchio per miniare e scrivere manoscritti destinati alla corte inglese e a facoltosi committenti. Nel corso della sua vita decora e trascrive oltre sessanta libri. La sua carriera si colloca durante il regno di Elisabetta I e di Giacomo I. Muore il 30 agosto 1624 a 53 anni.

Il grande successo delle sue opere è dato dall’elegante presentazione: i libri sono per lo più di piccole dimensioni, con bordi decorati con foglie e animali, rilegati in pelle, seta o velluto. Spesso ricama lei stessa le copertine. La calligrafia è squisita, estremamente dettagliata, spesso microscopica. Esther è in grado di produrre oltre 40 tipi di caratteri. In molte dediche dei suoi manoscritti si scusa per la temerarietà, in quanto donna, nel presentare autonomamente propri lavori, ma nello stesso tempo rivendica le proprie capacità, includendo la propria firma o propri autoritratti, che ne sanciscano l’appartenenza.

La scrittrice Maresa Sottile, docente di Storia dell’Arte ed Illustratrice, ha dedicato a quest’ artista il romanzo “ Malefizio d’amore”, edito da Albatros.

Vivere per un sogno

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mariarosacutrufelli“La donna che visse per un sogno” racconta la storia, in parte reale in parte romanzata, degli ultimi quattro mesi (dal luglio al novembre 1793) di Marie Olympe de Gouges, una delle poche donne ad aver avuto un ruolo attivo nella Rivoluzione Francese. Autrice della Carta dei diritti delle donne, di saggi ed opere teatrali, la de Gouges viene ghigliottinata il 3 novembre 1793, dopo un processo sommario, per aver pubblicato e fatto affiggere un manifesto con il quale proponeva che fossero i cittadini a decidere quale forma di governo preferissero. La storia è raccontata a più voci: la stessa Olympe, la moglie del figlio Pierre, Hyacinthe, la fedele serva Justine, la giovane che la denuncia e una galleria di personaggi che hanno modo di incontrare l’accusata (prigioniere, popolane, spie, artiste e spettatrici…). Le voci sono tutte femminili: un maestoso coro che narra la bellezza e insieme l’orrore di un tempo che faticosamente spalanca le porte al cambiamento sociale e alla modernità. Su tutto e tutti emerge la straordinaria figura della protagonista: tenera e intransigente, spavalda e schiva, profondamente convinta delle proprie idee, fiera e aliena da compromessi. Sino alla fine combatte per far valere il diritto alla libertà di pensiero. “Io sono solo una donna” scrive quando è ormai prossima alla fine. “Una donna che ha voluto essere qualcuno.”

Maria Rosa Cutrufelli, nata a Messina, si è laureata in lettere presso l’università di Bologna e vive attualmente a Roma. Oltre a questo, ha pubblicato altri quattro romanzi. Con La donna che visse per un sogno, Frassinelli 2004, che è stato finalista nella cinquina del Premio Strega, ha vinto il Premio Donna-Città di Alghero, il Premio Racalmare-Sciascia, la selezione del Premio Volponi e quella del Premio Penne. Ha scritto: La Briganta (2005), Complice il dubbio (2006) e D’amore e d’odio (2008), vincitore del premio Tassoni. Autrice anche di due libri di viaggio e di numerosi saggi, ha curato antologie di racconti e scritto diversi radiodrammi per la RAI. I suoi libri sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, portoghese.

Arte al femminile (56)

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Virginia Vezzi o Da Vezzo nasce nel 1601 a Velletri (ridente città sulle pendici del monte Artemisio, a 40 km da Roma). La città a quei tempi è sotto il controllo politico e religioso di un vescovo di nomina papale. Dal punto di vista artistico siamo nella piena fioritura del barocco romano. Suo padre, Pompeo Vezzi, pittore, si trasferisce a Roma dopo aver compreso il talento della figlia per la pittura e la incoraggia presto a coltivare le proprie doti, permettendole di studiare le tecniche pittoriche e fare apprendistato presso importanti artisti dell’epoca. Pare che Virginia conosca e diventi amica di Artemisia Gentileschi, che ammira molto. Nel 1622 i documenti registrano la presenza della fanciulla in un’abitazione nella “parrocchia degli artisti”, quella di San Lorenzo in Lucina. Negli Stati d’Anime del 1625 si annota che la famiglia Vezzi vive poco distante dalle abitazioni di grandi artisti come Claude Mellan (incisore e pittore francese), Charles Mellin (esponente del Barocco francese), Simon Vouet.  Il pittore e restauratore francese Simon Vouet (considerato uno dei maggiori esponenti del Caravaggismo) la conosce probabilmente a causa di questo rapporto di vicinato e rimane stupito dal talento della ragazza: s’incontrano intorno al 1623, quando Virginia ha sedici o diciassette anni. Il 21 aprile 1626 i due artisti si sposano. Virginia ha l’onore, prima del matrimonio, di essere accolta giovanissima–caso rarissimo a quei tempi- nell’Accademia di San Luca (associazione di artisti fondata nel 1593). Questo riconoscimento indica la percezione pubblica della sua attività artistica e il fatto che sia indicata come autentica professionista. Nel 1627 si trasferisce con il marito a Parigi, dove Virginia rimane sino alla morte, nell’ottobre 1638.

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Durante il soggiorno a Parigi viene molto apprezzata a corte, soprattutto da Maria De’Medici e dal cardinale Richelieu. Lo storiografo Félibien la descrive dotata di grandi capacità e votata all’apprendimento, con una bella mano e grande versatilità. Virginia ottiene in Francia vari riconoscimenti e la sua reputazione cresce anche nella natia Velletri, tanto che nel 1644 viene ricordata nel Theatro Historico di Velletri dallo studioso Bonaventura Theuli, che ne elogia il talento.

Difficile l’attribuzione dei suoi quadri, molti dei quali firmati dal marito, in base agli usi del tempo.

Di lei si sot­to­li­nea so­prat­tutto la pe­ri­zia nel di­pin­gere in pic­colo for­mato, nell’intaglio e nella pro­du­zione mi­nia­tu­ri­stica, in quei ri­trat­tini che tanto erano in voga a Roma nel se­condo de­cen­nio del Sei­cento. Se pre­stiamo at­ten­zione all’iscrizione in versi che Mel­lan, amico della cop­pia, in­serisce sotto il ri­tratto in­ciso dell’artista ve­li­terna, dob­biamo pre­sup­porre una sua co­spi­cua pro­du­zione pit­to­rica: egli con­si­glia in­fatti di am­mi­rare le sue tele piut­to­sto che il suo viso. Ed è pro­prio gra­zie ai di­se­gni e alle in­ci­sioni di Mel­lan che oggi ab­biamo un’idea della fi­sio­no­mia di Vir­gi­nia, che la rappresenta nell’Allegoria della pittura. Gli stu­diosi hanno più volte ce­duto alla ten­ta­zione di rin­trac­ciare i tratti della gio­vane donna in vari di­pinti di Vouet: le eroine del Vouet in realtà ri­cal­cano un ideale fem­mi­nile dif­fuso nella Roma del terzo de­cen­nio del Sei­cento, quello della vi­go­rosa po­po­lana, in parte idea­liz­zata, dalla bellezza opulenta e dalle forme morbide e generose.

Sue opere si trovano in collezioni private.

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Arte al femminile (55)

Palazzo DonnannaSecolo di grave crisi economica, politica e sociale, il Seicento è invece a Napoli, e di riflesso anche nel Regno, un periodo di straordinaria vivacità nel campo delle arti figurative, tanto da essere definito, e non a torto, il «secolo d’oro» dell’arte napoletana. Napoli condivide con Roma, e in parte con Bologna, il ruolo di grande capitale dell’arte, più di Venezia, di Milano, di Firenze che non vivono, nel Seicento, la loro migliore stagione artistica. Come già nel secolo precedente, Napoli è un centro di attrazione per spagnoli e per sudditi della Spagna, come i fiamminghi, che appaiono numerosi a Napoli e nel Sud.

L’ambiente marino e i pesci costituiscono il tema dominante della pittura di un’interessante pittrice napoletana.

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Elena Recco è conosciuta più che altro per essere figlia del celebre Giuseppe Recco, considerato la personalità più importante nel panorama napoletano dei pittori di natura morta. Giuseppe fa parte di una grande dinastia di specialisti di questa tipologia pittorica: suo padre Giacomo è tra i fondatori del genere, suo zio Giovan Battista è ineguagliabile nei suoi caratteristici soggetti di cucina e selvaggina, i figli Elena e Nicola Maria seguono degnamente le orme paterne. Pittrice ricercata e autrice di alta qualità, Elena merita senza ombra di dubbio un posto di predominante importanza nel panorama del genere della natura morta napoletana. Della sua carriera non si hanno notizie precise, le prime note certe sono offerte da Bernardo de’ Dominici nelle sue “Vite de’ pittori, scultori, ed architetti napoletani” (1683-1759) in appendice alla vita di Giuseppe Recco. Il biografo non menziona la sua data di nascita, ma ne loda le qualità che le fecero guadagnare un viaggio in Spagna nel 1695: “ Ebbe il Cavalier Recco da Francesca di Simone sua Consorte dodici figliuoli tra maschi, e femmine, e fra queste vi fu la famosa D. Elena Recco, che fu brava Pittrice, e della quale avendone avuta notizia il medesimo Re Carlo II la chiamò in Ispagna, ed ove fu condotta dalla Contessa di Santo Stefano, allorché fece ritorno a Spagna dopo finito il Governo del Regno di Napoli, e dalla Corte ricevè tutti quelli onori che può desiderare qualsisia qualificato personaggio” (cfr. B. de’ Dominici, Vite de’ pittori, scultori, ed architetti napoletani, III, Napoli 1742-44, pag. 297). In Spagna Elena dipinge per il re e per altri illustri personaggi della corte. Ritorna a Napoli per poco tempo, perché viene nuovamente chiamata in Spagna, dove i suoi quadri sono molto apprezzati e dove si sono trasferiti il padre e i fratelli Tommaso, sacerdote, ed Antonio, anche lui pittore. Elena predilige l’iconografia marina e famose sono le sue composizioni con pesci di tutti i tipi, che costituiscono un po’ il suo biglietto da visita.

Sue opere si trovano in Spagna, nel complesso della Zarzuela, nel museo di Varsavia, nel museo Puskin a Mosca, nella City Art Gallery di Leeds, in collezioni private.

La luminosità, la vivacità delle costruzioni sceniche caratterizzano le raffigurazioni di pesci di diverse forme e colori, crostacei e coralli, descritti con esperto realismo.

Una vita in un lenzuolo

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Il tuo nome sulla neve- Gnanca una busia è la straordinaria autobiografia che una donna ha scritto su un lenzuolo, utilizzando le parole quasi come un ricamo. L’originale è conservato nell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano (Arezzo) e ne è stato tratto questo imperdibile libro, che ci dà il quadro di un tempo perduto e di una vita di fatica e sacrificio, riscaldata dagli affetti.

Clelia Marchi era una contadina di Poggio Rusco (Mantova), nata nel 1912, morta nel 2006 dopo aver perso quattro figli su otto, aver vissuto due guerre mondiali e aver patito tutta un’esistenza di sacrifici, povertà, fatica manuale. Nel 1972, ormai raggiunta la tranquillità di una casa in paese, con i figli sistemati e nipoti e pronipoti da godere, un incidente stradale le porta via il marito, il bello e onesto Anteo dagli occhi azzurri, conosciuto a quattordici anni e amato a sedici. Per un particolare accanimento della sorte, mancava poco alla scadenza dei loro cinquant’anni di matrimonio, un’occasione in cui avrebbero potuto, finalmente, festeggiare. L’amarezza, il dolore, l’improvvisa solitudine nel letto matrimoniale tolsero il sonno all’anziana signora. Si sentiva “come una vite senza l’albero” a cui si era avvinghiata per cinquant’anni, ricavandone tutta l’energia per rimanere in piedi e ripartire dopo ogni disgrazia: a che cosa poteva attaccarsi, adesso? Nella spietata saggezza delle contadine, la depressione è sempre stata un lusso che non ci si può concedere, perciò Clelia si trovò qualcosa da fare nelle notti insonni. Raccolse cartoncini, carte, fogli, li cucì per formare dei quaderni e scrisse, scrisse, scrisse come si piange, senza freno, a dirotto, all’ingrosso, a peso: chili e chili di quaderni. Fino a quando, una notte, rimase senza carta.

Allora aprì l’armadio, prese un lenzuolo, si posò un cuscino sulle ginocchia, sul cuscino spianò le pieghe del lenzuolo e, in quella posa classica da ricamatrice, cominciò a ricoprire di righe di scrittura la superficie candida della tela, intrecciando i ricordi della sua vita e “la storia della gente della sua terra, riempiendo un lenzuolo di scritte, dai lavori agricoli, agli affetti”.

Nel 1985 il lenzuolo-libro era completo: Clelia aveva ordinatamente numerato ogni riga per aiutare i lettori a non perdere il segno e aveva incollato sopra lo scritto, a mo’ di frontespizio, un’immaginetta sacra al centro e ai due angoli due fotografie, quella del marito e la sua, con le didascalie in inchiostro rosso. Non mancava nemmeno il titolo, un programmatico “Gnanca una busia”, in dialetto per farlo suonare più forte, più sincero. Ma a che pro raccontare la propria verità, se non trova lettori? Consapevole che a nulla serve scrivere ricordi e sentimenti “se nessuno li guarda, ò li legge”, Clelia chiese consiglio al sindaco del paese e nel marzo del 1986 prese il treno per Arezzo, poi una corriera, e con il suo lenzuolo ben impacchettato sottobraccio arrivò a Pieve Santo Stefano, dove Saverio Tutino aveva inaugurato da neanche due anni l’archivio dedicato alle scritture autobiografiche degli italiani. Quello che poi successe è storia nota. Nel 1989 Luca Formenton, durante una visita a Poggio Rusco, luogo natale di suo nonno Arnoldo Mondadori, venne a sapere del lenzuolo di Clelia, volle vederlo e fu subito colpito dalla particolare aura del documento. Il testo, pubblicato nel 1992 dalla Fondazione Mondadori, diventò un caso editoriale, dando all’autrice e alla sua opera una notorietà che non sarebbe stata transitoria. Oltre a venire sempre citato negli studi sulla memorialistica e la scrittura popolare, lo straordinario oggetto iscritto di Clelia Marchi è diventato il simbolo stesso dell’archivio diaristico di Pieve. (dalla Prefazione di Carmen Covito)

Arte al femminile (54)

525025_napoli_italia_italy_neapol_italiya_castel_2048x1365_www.GdeFon.ru_Napoli rimane sotto il dominio spagnolo dal 1503 al 1707: durante questa parentesi storica inizia un lento decadimento dal punto di vista economico, vivendo di riflesso le crisi della corona spagnola. Importanti correnti artistiche e nomi illustri si affermano comunque in città e dintorni: anche qui le tendenze barocche rinnovano il linguaggio artistico.

Una donna di cui abbiamo notizie che hanno del romanzesco è la pittrice Luisa Capomazza che, nella prima metà del XVII secolo, come scrive il De Dominici (pittore e storico dell’arte italiana tardo-barocca), disprezza ogni altro amore al di fuori di quello nutrito per l’arte. Nasce a Pozzuoli da famiglia benestante e riceve la tipica educazione delle fanciulle del tempo: ricamo, musica, disegno…Da adolescente si dimostra fortemente inclinata al disegno, tanto che “passava l’ore nel mirare le pitture domestiche, che servivano di adornamento alla propria casa, anziché raccontasi che distaccata un’effigie di un San Giovanni Battista si pose a imitarla con carbonella…” Viene sicuramente mandata a scuola da Mariangela Criscuolo, che dà affidabilità in quanto gode fama di donna morigerata. Forse ha qualche insegnamento da Pompeo Landolfo e da Antonio Santoro. Subisce l’influenza di Ippolito Borghese per la pittura di stampo devozionale, intrisa di pietismo, ma anche di piacevolezza domestica, con una religiosità seria e meditativa, temperata da una calda atmosfera familiare.

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La sappiamo operante intorno al 1620. Nonostante la sua straordinaria bellezza ella si trascura e si disinteressa dei “donneschi abbigliamenti”, essendo costantemente assorta nel dipingere. Pur di non cedere alle avances di molti gentiluomini, tra cui il pittore Fabrizio Santafede, preferisce monacarsi, col consenso del padre, per dedicarsi appieno ai suoi quadri, lavorando in molte chiese di Napoli e per vari nobili napoletani.

Diventa famosa e ricercata, ma ha problemi di salute intorno alla mezza età, tanto da diventare impossibilitata a lavorare. Muore nel 1646, lasciando le proprie opere a una nipote e alle cosiddette povere “vergognose”, ragazze da lei seguite e aiutate.

Sue opere si trovano nella Chiesa di Gesù e Maria (Napoli), nella seconda cappella a destra, entrando in chiesa e in quella dirimpetto a questa. Altre si possono ammirare nella chiesa di Santa Chiara. Quadri da lei firmati fanno parte di collezioni private.

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Vergine giurata

L’amica Ivana mi ha indicato questo libro, che ho letteralmente “divorato”!

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Prendendo spunto da una fotografia di famiglia, che ritrae una donna vestita da uomo, la Dones avvia una ricerca sulle tradizioni popolari albanesi, da cui scaturisce questa originalissima e sofferta storia. Avvincente la narrazione, così come toccante è il vissuto della protagonista, il cui animo viene presentato con tutte le complicazioni, le tensioni, i tormenti che lo caratterizzano. La trama si collega alle ancestrali leggi del Kanun, vigenti soprattutto nei paesi a nord dell’Albania e in Kosovo. La scrittura è chiara ed espressiva, il che è particolarmente meritorio, in quanto l’autrice, di madre lingua albanese, ha scelto di scrivere direttamente in italiano.

Trama: Hana Doda abbandona gli studi universitari di Letteratura, che ha da poco iniziato all’Università di Tirana, piena di curiosità e di entusiasmo, per tornare a vivere nel suo paese di origine, sulle montagne del Nord dell’Albania. Lo zio, che l’ha cresciuta dopo la morte dei genitori e che adesso è vedovo e gravemente malato ha bisogno delle sue cure. Hana si rifiuta di accettare il matrimonio combinato che permetterebbe allo zio di morire in pace, ma che costringerebbe lei a rinunciare alla propria indipendenza. Pensa che l’unico modo per risolvere i suoi problemi sia diventare una “vergine giurata”: una di quelle donne, cioè, che a un certo punto della propria vita decidono di farsi uomini e di rinnegare la propria femminilità. Si tratta di un atto d’amore e di gratitudine, che assume i tratti di uno spaventoso olocausto di sé. Lo zio è fiero di lei, l’onore della famiglia è salvo e lui è finalmente libero di arrendersi alla malattia che lo divora. “Non correre non far rumore non pensare. Nessuna fretta. Non più. C’è tutto il tempo di questo mondo, nessuno ti aspetta, non devi più preoccuparti della morbidezza dei tuoi capelli…” Nella cupa solitudine delle montagne Hana, divenuta per tutti Mark, si abbruttisce e si imbruttisce per sopravvivere alla fatica, al freddo, allo sconforto, finché la cugina Lila, emigrata tanti anni prima negli Stati Uniti, non riesce a convincerla a infrangere il giuramento per raggiungerla negli USA. Qui Hana riesce con grande sforzo – grazie al sostegno della cugina e della sua famiglia, ma soprattutto alla propria tenacia – a trovare la consapevolezza di sé e del proprio corpo mortificato, e ad accettare l’amore di un uomo che la aiuta ad appropriarsi di una femminilità rinnegata. “Lei lo guarda dritto negli occhi e gli risponde pacata, senza temere di suonare enfatica. Il suo gesto ha dato onore a Gjergj Doda, l’ha fatto vivere un paio di mesi in più. Se l’avesse concessa in sposa, Gjergj sarebbe morto triste, avrebbe saputo di aver fatto qualcosa che Hana odiava. E se lei avesse disobbedito, Gjergj Doda avrebbe perso la faccia di fronte ai monti. Con Hana fattasi uomo, Gjergj era morto pieno di sconfinato orgoglio.”

“E di nuovo, immensa
sconfinata, ricomincerà
la vita, senza occhi, senza parole,
senza pensiero
.”

Le leggi del Kanun sono servite per più di cinquecento anni come codice ancestrale riguardante il comportamento sociale e l’amministrazione delle proprietà dei clan dell’Albania del Nord e del Kosovo. Nel Kanun si riconosce un particolare diritto alla donna (diventato ormai desueto), cioè quello di proclamarsi uomo. La “vergine giurata” nasce da un bisogno sociale. Secondo il Kanun, se i patriarchi della famiglia muoiono e la famiglia rimane senza un erede maschio, la donna non sposata della famiglia può scegliere di diventare capo famiglia, a pesanti condizioni, ossia facendo un giuramento di verginità e accettando il ruolo di maschio a tutti gli effetti. La donna che fa questa scelta pronuncia uno speciale giuramento (da ciò il suo nome) in occasione di una cerimonia sacrale, nella quale garantisce il proprio stato di verginità davanti ai dodici uomini più importanti del villaggio. Dopo il giuramento, la donna assume un comportamento maschile, prende un nome da uomo, si arma, fuma, beve e mangia con gli uomini laddove alle donne non è permesso. Inoltre acquisisce il diritto di vendere, comprare e gestire proprietà, può partecipare alla guerra e alle vendette tra i clan. Vergini giurate si possono ancora trovare in alcuni villaggi dell’Albania.

Solo un uomo può essere capofamiglia. Può essere libero di andare dove vuole, di comandare, di comprare terra, di difendersi, di attaccare se necessario, di ammazzare e farsi ammazzare. All’uomo sono concesse la libertà e la gloria, oltre al dovere. Alla donna non resta che l’obbedienza. E lei con l’obbedienza aveva qualche problema, tutto qua”.

Elvira Dones nasce a Durazzo nel 1960. È una scrittrice, giornalista e sceneggiatrice albanese. Attualmente vive negli Stati Uniti, dopo aver trascorso molti anni in Svizzera.

Il romanzo è stato trasposto in film da Laura Bispuri, che l’ha presentato al Festival del cinema di Berlino del 2015.