Arte al femminile (492)

Ho ricordato alcune importanti fotografe in precedenti articoli: Ruth Orkin (v.n.491), Dorothea Lange (v.n.431), Vivien Maier (v.n.427) ed Elizabeth “Lee” Miller (v.n.429), per citarne alcune. Penso che la fotografia, soprattutto quella in bianco e nero, abbia un fascino straordinario.

Aggiungo un altro personaggio, una valente fotografa statunitense.

Berenice Abbott nasce a Springfield, nell’Ohio, nel 1898.

I genitori si separano presto e Berenice, più giovane di quattro figli, vive con la madre come figlia unica dall’età di due anni.

Inizia gli studi alla Ohio State University , per diventare giornalista, ma li abbandona nel 1918.

Nello stesso anno si stabilisce con alcuni amici al Greenwich Village di New York, condividendo una grande casa con altri artisti, studiosi e letterati.

Studia scultura, incontrando eminenti personaggi.

Nel 1919 ha un momento di difficoltà, per la pandemia di influenza spagnola, rischiando di morire.

Nel 1921 si reca in Europa, a Parigi e a Berlino, sempre per perfezionarsi nella scultura.

L’interesse per la fotografia nasce nel 1923, quando viene assunta a Parigi da Man Ray, che cercava qualcuno come assistente, che non sapesse niente di fotografia, in modo da eseguire solo quello che gli venisse detto.

Berenice rivela una tale maestria, che Ray, impressionato dai suoi lavori, le permette di usare il suo studio e le sue attrezzature.

Nel 1926 Berenice fa la prima mostra personale e inaugura un proprio studio.

Dopo un periodo a Berlino, per studiare sempre fotografia, torna a Parigi nel 1927 e apre un secondo studio. Diventa famosa per i suoi ritratti. I suoi soggetti sono inizialmente personaggi del mondo artistico e letterario.

Conosce il fotografo Eugène Atget, di cui diventa ammiratrice, di cui curerà la memoria con un libro pubblicato nel 1930 e varie mostre per farne conoscere i lavori.

Nel 1929 torna a New York.

Dopo una relazione vissuta a Parigi con l’artista Thelma Ellen Wood, nel 1935 si trasferisce in un loft al Greenwich Village con la critica d’arte Elizabeth McCausland, con la quale convive e collabora  sino alla morte di lei nel 1965.

Usando una macchina fotografica a grande formato, Berenice fotografa aspetti della vita cittadina, con grande attenzione ai dettagli. Molti edifici e quartieri di Manhattan da lei ripresi oggi non esistono più. Berenice è affascinata dalla rapida trasformazione di New York, cattura e documenta le variazioni di una metropoli in crescita, evidenziando il contrasto tra passato e presente.

Nel 1941 pubblica il manuale A guide to better photography, che riscuote enorme successo e ha numerose ristampe.

Nel 1954 viaggia lungo la US1 dalla Florida al Maine, per riprendere le piccole cittadine e le nuove strutture architettoniche legate all’avvento dell’automobile. Produce ben 2500 negativi.

Nel 1958 realizza una serie di fotografie per un libro di testo di fisica per le scuola superiori.

La sua inventiva la spinge a ideare anche attrezzi particolari per ottenere nuovi effetti fotografici.

In seguito a un intervento ai polmoni, lascia la grande città e si trasferisce nel Maine.

Muore nel 1991.

Berenice fa parte del movimento di fotografi, che sottolinea l’importanza di fotografie non manipolate sia per quanto riguarda il soggetto che il processo di sviluppo.

Questa artista ha vissuto con grande libertà e anticonformismo, innovando il proprio lavoro, spaziando dalla fotografia alle invenzioni scientifiche, al giornalismo, alla ricerca fotografica.

Oltre alla fotografia si è dedicata anche alla scrittura, pubblicando poesie sulla rivista sperimentale Transition.

“La visione del ventesimo secolo è stata creata dalla fotografia, l’immagine ha quasi sostituito la parola come mezzo di comunicazione”.

Blossom Restaurant, 1935 © Berenice Abbott

Arte al femminile (491)

Ho avuto la fortuna di vedere la mostra allestita a Bassano del Grappa per una prestigiosa fotografa: Ruth Orkin.Leggenda della fotografia.

Ruth Orkin è considerata una delle più brave fotoreporter del Novecento.

Come si legge nella presentazione della mostra, le sue fotografie “testimoniano il talento di Orkin nel cogliere, con il suo obiettivo, situazioni potentemente iconiche e di saper fare di queste immagini i lemmi di una narrazione fortemente evocativa. Che si tratti di scatti singoli o di lavori composti da sequenze di fotogrammi, di ritratti o di paesaggi urbani, siano questi di New York, di Roma o Venezia, ogni fotografia di Ruth Orkin ha la forza di un racconto in cui luoghi e persone si rispecchiano l’uno nell’altro.”

Le sue fotografie sono come narrazioni. Famosa in particolare la sequenza dedicata alla bella Nina Lee Craig, studentessa statunitense di storia dell’arte, protagonista di immagini scattate per le strade di Firenze, che denotano l’esperienza di una giovane americana in viaggio nell’Italia del dopoguerra. Molto famosa la fotografia che appare nel manifesto della mostra.

Ruth nasce a Boston nel 1921.

Il mondo del cinema le è familiare, in quanto figlia di Mary Ruby, intensa interprete del film muto. Il padre, Samuel Orkin, è un produttore di barchette giocattolo. Cresce negli anni d’oro di Hollywood.

A 10 anni riceve come regalo di compleanno la sua prima macchina fotografica. 

Giovanissima, a 17 anni, parte in bicicletta da Los Angeles, per raggiungere New York e visitare l’Expo del 1939. Fotografa luoghi e persone incontrate nel suo lungo viaggio.

Nel 1940 frequenta, per un breve periodo, il Los Angeles City College, per studiare come fotoreporter.

Dopo avere tentato invano di diventare regista, perché questa professione era preclusa alle donne, si trasferisce a New York. Cerca di intraprendere la carriera di fotografa come freelance. Ha bisogno di uno strumento per raccontare storie, per viaggiare e conoscere il mondo e la fotografia, in mancanza di alternative, le appare una buona soluzione per non rinunciare al suo sogno.

Nel 1943 lavora come fotografa in un locale notturno, poi le sue fotografie appaiono in prestigiose riviste e il suo nome diventa famoso. Nel 1945 infatti riceve il primo incarico di rilievo da parte del The New York Times, per fotografare Leonard Bernstein, celebre direttore d’orchestra, compositore e pianista.

Appassionata di musica e cinema, ne immortala i protagonisti.

Nel 1947 diviene membro della Photo League, cooperativa di fotografi di New York attiva dal 1936 al 1951. Il gruppo ha come obiettivo la documentazione della realtà dei quartieri più poveri e isolati, l’impegno sociale e una fotografia che sia documento spontaneo della vita quotidiana della gente, senza abbellimenti e distorsioni.

Ruth usa la macchina fotografica in modo discreto, cogliendo attimi, afferrando al volo il momento giusto. Fotografa persone che aspettano il treno, che sono immerse completamente nei propri pensieri o semplicemente sedute al tavolo di un bar… In molte immagini sembra che il tempo sia sospeso, in attesa che accada qualcosa, in altre sembra di osservare mini-racconti. La passione per il cinema si evidenzia nel suo modo di guardare e scattare.

In una serie chiamata Dall’alto si affaccia alla finestra e rappresenta persone immerse nella normalità quotidiana.

Nel 1951 la rivista Life le commissiona un reportage in Israele.

Nel 1952 sposa Morris Engel, grande fotografo e cineasta.

Questa coppia ha segnato la storia della fotografia degli anni ’60-’70. Ricercano la vita nelle loro immagini.

Ruth fotografa personaggi famosi del suo tempo, cogliendoli in momenti più intimi. Celeberrimo il ritratto di Einstein.

Realizza vari lungometraggi, come The little fugitive che ottiene una nomination agli Oscar per la migliore sceneggiatura. Il film vince anche il Leone d’Argento al Festival del Cinema di Venezia.

Muore a New York nel 1985.

“Essere un fotoreporter richiede esperienza, abilità, resistenza, energia, abilità nel saper trattare, capacità organizzative, saper adulare, scalare, sapersi imbucare, ecc. – in più non guasta avere un certo occhio e tanta pazienza”. (Ruth Orkin)

Arte al femminile (490)

Torno un po’ in Italia…

Eleonora Arangi nasce a Palermo nel 1883. Il padre insegna all’istituto tecnico e la figlia sviluppa le sue doti artistiche, di disegno e pittura, all’interno delle mura domestiche.

Il suo talento colpisce il pittore Pietro Volpes, uno dei maggiori artisti dell’Ottocento palermitano, che la incoraggia nella via dell’arte.

Si dedica al ritratto, utilizzando sia la tecnica del pastello che quella dei colori a olio.

Molte sue opere si inseriscono nel filone della pittura veristica, raffigurando momenti e personaggi della vita di tutti i giorni. Moderno è l’uso di piccoli tocchi vibranti, così come la sapienza nell’uso del colore e la potenza espressiva.

Muore a Palermo nel 1933.

Alcune sue opere sono esposte alla Galleria Civica, a Palazzo Comitini, sede della Provincia (v.foto) e al museo “G.Pitrè” a Palermo (v.foto).

Anche lei, come altre pittrici, è stata poco valorizzata. Solo nel 2012 i suoi lavori sono stati recuperati e presentati al pubblico in una mostra dedicata alle artiste siciliane.

Questo evento aveva l’obiettivo di riparare all’oscurità che ha avvolto per tanto tempo il lavoro di varie valenti pittrici.

Nella prefazione del catalogo Dacia Maraini scrive: «Si dà per scontato che le donne siano una categoria umana inferiore per storia e tradizione consacrata. Nessuno si è dato la briga di andare a vedere, a studiare, ad approfondire questi dipinti, dando per scontato che essendo di mano femminile, sia in partenza arte marginale, trascurabile, infantile, primitiva, irrilevante».

Elaborare un lutto

L’elaborazione di un lutto è sempre un percorso lungo e faticoso. Quello raccontato in questo romanzo è particolare. Una storia vera, affascinante, in grado di aprire nuove prospettive.

Long Litt Woon, cinquantenne norvegese di origini malesi, residente a Oslo, viene colpita improvvisamente dalla morte dell’amato marito Eiolf. Dopo un periodo di abbattimento, chiusura in se stessa, con un dolore che sembra senza riposo, le si offre una prospettiva per rinascere. Interessanti nella parte iniziale le riflessioni sul dolore e sui comportamenti di chi sta vicino a una persona in lutto.

Long partecipa casualmente a un corso di micologia per principianti e le si presenta una nuova prospettiva di vita.

Incomincia ad appassionarsi alla micologia, sia per il contatto con la natura che questa permette, sia perché il mondo dei funghi si rivela pieno di sorprese e scoperte. In lei si risvegliano i cinque sensi, tra i colori e i profumi dei boschi norvegesi e scopre la gioia dell’esplorazione in un regno naturale complesso e misterioso.

Le giornate di Long cominciano a comporsi di passeggiate in mezzo a boschi e parchi, animandosi dei sapori dei funghi che raccoglie o vede nel suo percorso. Non solo li studia, ma li cucina, dando qualche ricetta.

Il racconto si sviluppa su due binari paralleli: da una parte l’aspetto più intimo, legato al superamento del dolore e al ritorno a una vita attiva, dall’altro un viaggio di ricerca e studio, che fa diventare l’autrice una vera esperta di micologia.

Questa passione le fa riprendere contatto con il mondo esterno, creando amicizie, scambi culturali e portandola a viaggiare. Un vero e proprio ritorno alla vita!

Nel libro ci sono descrizioni dettagliate di funghi, corredate da immagini e tavole esplicative, fatte in modo discorsivo e collegate a simpatici aneddoti. Viene presentato il popolo dei fungaioli, con le sue regole e i suoi rituali. Sono messi in discussione pregiudizi e luoghi comuni che accompagnano i funghi, come spesso avviene per tutte le cose che non si conoscono

La narrazione dell’evento più difficile della propria vita si alterna a una parte quasi manualistica, legata alle molteplici varietà di funghi e alle loro interessanti caratteristiche.

Un libro che riguarda tutti, facendoci capire come la natura abbia un potere curativo e ci accolga sempre nelle sue braccia. Nello stesso tempo ognuno può sempre ritrovare se stesso, anche nei momenti difficili, una maggiore capacità di comprensione dei propri bisogni e un risveglio di interessi.

Libro delicato, che lascia un messaggio positivo e un senso di serenità.

Long Litt Woon (1958) è un’antropologa e micologa norvegese di origine malese. Si è trasferita a Oslo quando era studentessa e da allora vi è rimasta.

“La via del bosco” è stato un caso editoriale alla Fiera di Francoforte del 2017 ed è in corso di pubblicazione in 15 paesi.

Cercando se stessa

Ci sono donne che attraversano la storia come meteore, lasciando una traccia indimenticabile.

Anne Marie Schwarzenach nasce a Zurigo nel 1908, in una ricca famiglia di industriali del settore tessile.

Nella villa svizzera di Bocken, sul lago di Zurigo, dove cresce, sua madre, imperiosa e possessiva, incombe su di lei, lasciandole poca libertà. Figlia di Ulrich Willie, generale a capo dell’esercito svizzero durante la prima guerra mondiale, la madre è appassionata di cavalli e di musica, Wagner in modo particolare. Ha cinque figli, di cui Robuli, il maggiore, non riuscirà mai a parlare. Con Annemarie ha un rapporto difficile e conflittuale: ha una manifesta preferenza per questa figlia fragile e talentuosa, che incanta i suoi ospiti suonando il pianoforte.

Per 7 anni Annemarie è seguita da un’istitutrice e frequenta poi le migliori scuole private. Studente di Storia a Zurigo e Parigi, ottiene il dottorato nel 1931, con una tesi sulla storia dell’Alta Engadina.

Annemarie non vede l’ora di fuggire dalla sua famiglia, da una madre apparentemente encomiabile, che ha un’amante, una famosa cantante lirica, sotto gli occhi del marito e ha simpatie naziste.

Nel 1928, a vent’anni, Annemarie parte per Parigi e poi Berlino.

Conosce i figli di Thomas Mann, Erika e Klaus, che la incoraggiano a scrivere, indirizzandola a questa che sarà la sua principale occupazione.

Con loro condivide la passione politica e la vita sregolata, ma nello stesso tempo viene iniziata al consumo di morfina. Affascinata dalla vita bohèmien dei due fratelli, precipita in una spirale di droga e depressione da cui non riemergerà mai più. L’amore non ricambiato per Erika Mann la spinge nel 1929 a un tentativo di suicidio e alla rottura con la sua famiglia.

La sua bellezza androgina e il suo viso angelico attirano molti ammiratori. Si dice che nel 1931, quando esce il suo primo romanzo, Gli amici di Bernhard, la sua foto in copertina induce molti ad appropriarsi del libro pur di averla.

Ha una passione sfrenata per i viaggi, per la partenza senza una destinazione precisa come esperienza esistenziale. Irrequieta, è sempre alla continua ricerca di speranza. I suoi vagabondaggi per il mondo sono fatti per allontanarsi dalle convenienze e ipocrisie familiari, per liberarsi dalla droga, per sfuggire da un’atmosfera politica sempre più preoccupante.

Va in Spagna e a Mosca, pubblicando resoconti giornalistici.

Diventa attivista nella resistenza contro Hitler, si lamenta della neutralità del suo paese. Contemporaneamente s’interessa di archeologia e partecipa ad alcune campagne di scavo in Oriente, soggiornando in Siria e in Iran.

Nel 1935 sposa a Teheran il diplomatico francese Achille Clarac, acquistando un passaporto diplomatico, che le permette di muoversi con libertà.

In Iran incontra la fotografa Barbara Hamilton-Wright, con cui parte per l’America.

Viaggia molto negli Stati Uniti, unendo all’attività di giornalista quella di fotografa. I suoi soggetti sono gli sfruttati, i neri linciati e dominati, si batte per l’uguaglianza. Documenta gli effetti della grande depressione. Nel 1936 segue la rielezione di Franklin Roosevelt a New York e l’anno successivo si reca negli stati del sud, documentando la vita di ogni giorno nelle piantagioni di cotone, nelle fabbriche e per le strade. All’attività lavorativa si alternano ricoveri ospedalieri per disintossicarsi, alcuni devastanti.

La fotografa ginevrina Ella Maillart le propone di fare un viaggio con lei, per raggiungere in automobile l’India, attraversando i Balcani, la Turchia, l’Iran e l’Afghanistan, per documentare un mondo che sta per scomparire.

Annemarie porta con sé una macchina da scrivere e la macchina fotografica. Crede di aver finalmente trovato la libertà tanto sospirata, ma ha spesso incubi e sogni angoscianti, anche per le notizie che arrivano dall’Europa.

“In viaggio con le nostre biciclette e con la Ford, non cercavamo l’avventura, ma soltanto un attimo di respiro, in paesi nei quali le leggi della nostra civiltà non valevano ancora e dove speravamo di fare l’impagabile esperienza che queste leggi non sono affatto inevitabili, immutabili, indispensabili. Provate a immaginare: il tempo non contava! Gli orologi, i calendari erano superflui! E avevamo perfino trovato persone, contadini, nomadi per i quali il denaro non significava niente”[Annemarie Schwarzenbach,  Kabul, 1939]

Quando scoppia la seconda guerra mondiale si trova a Kabul. Lascia la sua compagna e torna precipitosamente in Svizzera.

Dal 1941 al 1942 è in Congo.

Dal momento che i genitori sono sostenitori del nazismo, si rifugia da sola nella sua amata Engadina.

Muore nel 1942, a 34 anni, dopo una caduta in bicicletta e dopo essere stata per due mesi in stato di incoscienza e isolamento, per volontà della madre..

La madre alla sua morte brucia le sue lettere e vari suoi scritti, ritenendoli scandalosi per l’opinione pubblica.

Rimasta dimenticata sino al 1980, la sua opera viene pubblicata dall’editore svizzero Huber, che la toglie dall’oblio. In seguito anche l’editore Lenos di Basilea recupera alcuni testi inediti.

Presso la Biblioteca Nazionale di Berna, in un fondo a suo nome, si trovano manoscritti, lettere e circa 7000 fotografie che testimoniano i suoi viaggi.

Attualmente è considerata una delle protagoniste della vita culturale mitteleuropea tra la prima e la seconda guerra mondiale.

Nel 2008 il Museo Strauhof di Zurigo le ha dedicato un’ampia esposizione intitolata “Annemarie Schwarzenbach. Vedere una donna”, definendola una delle figure più sfuggenti e interessanti della scena culturale svizzera degli anni ’30.

Ha scritto romanzi, racconti, articoli e reportage di viaggi, inquieta e alla costante ricerca di nuove terre e nuove storie da fissare sulla carta o nelle fotografie.

Libri pubblicati in Italia: Dalla parte dell’ombra (2001), Sybille (Casagrande 2002), Oltre New York. Reportage e fotografie 1936-1938 (Il Saggiatore 2004), La via per Kabul. Turchia, Persia, Afghanistan 1939-1940  (Il Saggiatore 2009), Ogni cosa è da lei illuminata (Il Saggiatore 2012), La notte è infinitamente vuota (Il Saggiatore 2014), Tutte le strade sono aperte. Viaggio in Afghanistan 1939-1940 (Il Saggiatore 2015), Fuga verso l’alto (Il Saggiatore 2016).

Stefania Mazzucco le ha dedicato una biografia.

Destino senza speranza

Dopo essere rimasta affascinata dal romanzo “La grande A”, con un gruppo di amiche si è scelto di leggere quest’altro romanzo della Caminito. Anche qui predominano le figure femminili e vi è una madre forte e determinata. Alla fine della lettura rimane però un senso di amarezza, che non si aveva con il romanzo precedente. Qui muore ogni speranza, sembra che il destino tracci già il nostro percorso, senza possibilità di riscatto. Siamo negli anni 2000, con tutte le inquietudini adolescenziali, senza un respiro più ampio, fiducia nel futuro: tutto sembra annegare nelle acque ferme del lago…

Ho seguito con partecipazione la vicenda di Gaia, la voce narrante, molesta, manesca, folle e fragile. L’ho giustificata in tante situazioni, ma sono rimasta delusa dalla drammatica conclusione, con una sconfitta senza rimedio.

Il romanzo racconta appunto la storia di Gaia (nome che contraddice la personalità), dall’infanzia alla prima giovinezza.

La famiglia si regge sulle spalle di una madre imperiosa, onesta e intraprendente, Antonia la Rossa, che deve prendersi cura di un marito inchiodato a una sedia a rotelle, a causa un incidente nel cantiere dove lavorava in nero come muratore, e dei quattro figli, il primo dei quali, Mariano, avuto da un’unione precedente.

Gaia è la secondogenita, seguono due gemelli, che rimangono figure indefinite.

La vita di Antonia, che lavora come colf, assomiglia a una continua battaglia, che lei combatte con grande forza d’animo, con ostinazione e tenacia incrollabili. Parte del temperamento della madre troviamo nella figlia. Rossa di capelli come lei, come lei fiera e combattiva, capace di spietata autodisciplina, ma incline ai colpi di testa: alle offese, alle umiliazioni e ai tradimenti reagisce con aggressività priva di scrupoli.

A un certo punto pare che la vita possa prendere una piega diversa per Gaia: ha finito il liceo con risultati brillanti, riesce a mettersi con il ragazzo che desidera, ha un’amica nuova, si è iscritta all’università. Quando sembra che tutto proceda regolarmente, la situazione precipita…

La vita di Gaia è scandita dai cambi di casa, decisi dalla madre, che cerca sistemazioni che permettano alla famiglia di avere un minimo di vita “normale”. Prima rende abitabile un buco, in un seminterrato, in un fatiscente edificio della periferia romana, un posto che Gaia ricorda con rimpianto, per un cortile in cui giocava liberamente. Si tratta di una minuscola piazzola davanti casa, che Antonia ha ripulito. Gaia e il fratello Mariano condividono qui i loro giochi, ma non hanno compagni.

Poi la madre riesce a ottenere dal Comune di Roma un appartamento più grande, nella borghese zona di corso Trieste, dove la vita è cara e la sua numerosa e difficile famiglia non è benvenuta. Gli inquilini li guardano con diffidenza e li considerano un’anomalia nelle loro vite apparentemente ordinate. Inoltre gli abitanti impediscono a una bambina in sedia a rotelle di prendere il sole in cortile, per cui Antonia dà vita a una vigorosa protesta.

Non sopportando le convenzioni imposte dalla vita condominiale, Antonia si accorda per uno scambio di casa con una certa signora Mirella, anch’essa assegnataria di un alloggio comunale fuori città, ad Anguillara Sabazia, sul lago di Bracciano, il lago cui si collega la vicenda. Del lago vengono evidenziati gli aspetti inquietanti, pericolosi, come la vita di Gaia. 

Gran parte dell’adolescenza di Gaia si svolge in questo paese e lei, che viene iscritta a buone scuole a Roma, per volontà materna, vive le contraddizioni della propria condizione di povertà, in continuo confronto con l’agiatezza borghese di molti suoi coetanei.

L’ultima decisione di Antonia è il ritorno a Roma, nel vecchio appartamento, ma Gaia sceglie di tornare al lago per un finale tragico. 

Il fare di Antonia è progetto, quello di Gaia è guerra.

Se la decisione di studiare filosofia risulta poco lungimirante, perché non adatta a cambiare la sua condizione sociale («Mi sono iscritta a filosofia per ripicca, per danno, per malaugurio, per sfida»), a pesare sono anche altri e più sottili fattori, l’incapacità di empatia e tenerezza.

Una forma di complicità lega la protagonista al fratello maggiore Mariano, che però, inquieto e ribelle, viene a un certo punto allontanato dalla madre. Il rapporto con la madre è condizionato da costrizioni cui Gaia non riesce a sottrarsi. Le amicizie femminili riservano delusioni, gelosie e ipocrisie. Con i ragazzi non va molto meglio. Il ricco e insipido Luciano è definito «il mio ragazzo monile, pepita e baule, il mio orpello prezioso, la spilla di pietre cangianti che espongo sul bavero sinistro della mia giacca».

Il disamore sembra essere il destino di Gaia, abituata a una vita troppo dura per concedersi il lusso della tenerezza.

Fra le vicende collaterali, spiccano le tragiche storie di due amiche: Carlotta, disinibita solo in apparenza, che finisce per togliersi la vita, e Iris, l’unica vera amica, che un male incurabile si porta via, lasciando in Gaia un forte senso di colpa.

L’aspetto meno pessimistico della storia riguarda la relazione tra due personaggi maschili, il padre Massimo e il primogenito Mariano. I due, che si detestano finché convivono, nella lontananza scoprono un legame affettivo sincero.

Nell’insieme, il libro lascia l’impressione di una vita predestinata alla disgrazia, con una protagonista incapace di emanciparsi dalla sua «coriacea voglia di offendere e affondare».

“Io respiro forte nel casco, ingoio rabbia, tutta quella che ho tenuto celata, quella che ho travestito per le grandi occasioni, quella che ho guardato ballare a distanza, quella che m’hanno vietato e che invece mi appartiene e voglio coltivare, sento il collo appesantito, le mani calde, doloranti.

Un libro duro, spigoloso, in cui il destino sembra immutabile. Ci sono tutti i fermenti dell’adolescenza, ma anche la scelta dell’autrice di non dare speranza, in modo troppo evidente.

Questo romanzo dà voce a una generazione arrabbiata e scoraggiata, che pur non riuscendo a vedere il fondale di quel lago oscuro e impenetrabile, continua comunque a scrutare, così come Gaia continua a cercare le lucine del presepe subacqueo, che, secondo la leggenda, rischiarano il lago di Bracciano nelle sere d’inverno.

Lo stile è un equilibrio di registri diversi e ben rappresenta il dipanarsi di fatti ed emozioni.

Giulia Caminito è nata a Roma nel 1988 e si è laureata in Filosofia politica. Ha esordito con il romanzo La Grande A (Giunti 2016, Premio Bagutta opera prima, Premio Berto e Premio Brancati giovani), seguito nel 2019 da Un giorno verrà (Bompiani, Premio Fiesole Under 40) e da L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani 2021), finalista al premio Strega e vincitore del premio Campiello 2021.