Libri per capire

Tre piani di Eshkol Nevo, ed.Neri Pozza è un romanzo che offre molti spunti di riflessione.

La singolarità del romanzo, come appare nella quarta di copertina, è data dal fatto che i protagonisti vivono nello stesso tranquillo condominio di un quartiere altrettanto ordinato e curato. Abitano in appartamenti su piani diversi e ad ogni piano l’autore collega una vicenda che esemplifica la teoria di Freud, per cui in ognuno di noi convivono tre aspetti (3 piani appunto!): l’Es corrispondente alle pulsioni, all’istinto, l’Io che cerca la conciliazione tra desideri e realtà e il Super Io, che porta alla responsabilità, all’ordine, alla severità.

Un’altra singolarità del romanzo è che i protagonisti confidano le proprie vicende ad un interlocutore, che non interagisce con loro, ma con cui hanno un rapporto di totale confidenza. Il bisogno di parlare della propria esperienza è così forte, perché solo le parole hanno il potere di dare un senso, di riconciliarci con il mondo esterno. I personaggi vivono separatamente una identica solitudine e ognuno di loro cerca soltanto qualcuno con cui aprirsi. Se non c’è nessuno ad ascoltare allora non c’è nemmeno la storia sembra dirci l’autore.

“Era molto tempo che nessuno s’interessava a me in quel modo, Neta. In modo così evidente. ….non mi è rimasto nessuno con cui essere sincera. A volte trascorro intere mattinate a disquisire con voi nella mia testa…” “Ho pensato che potresti…raccontarmi di me….Così magari mi ricordo chi sono” è il messaggio di Hafi, del secondo piano, che in una lettera all’amica Neta esprime la paura di impazzire come la madre e l’insoddisfazione di non sentirsi realizzata come donna, moglie e madre.

La sintesi la fa però Dovra, del terzo piano, quando afferma: “I tre piani dell’anima non esistono dentro di noi. Niente affatto. Esistono nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia. E se non c’è nessuno ad ascoltare, allora non c’è nemmeno la storia…L’importante è parlare con qualcuno. Altrimenti tutti soli, non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare disperati nel buio, nell’atrio, in cerca del pulsante della luce.”

Importanza della comunicazione, della parola che dà sollievo e conforto, ma soprattutto dell’essere “riconosciuti”: “Volevo disperatamente trattenere ancora un secondo il suo sguardo curioso su di me. Quanto tempo è passato da quando qualcuno ha desiderato così intensamente conoscermi…”

Arnon del primo piano (quello dell’istinto) sfoga la sua rabbia in una lunga arringa autodifensiva  con un amico. Padre amoroso e instabile, è convinto che il vicino di casa Hermann, con i primi sintomi di Alzheimer, abbia fatto del male alla figlioletta Ofri. Non distingue tra realtà e fantasia e dimostra una totale mancanza di empatia verso due anziani soli e bisognosi di affetto. Alla fine è lui che cede all’istinto con un’adolescente che sa debole: “Di giorno mi dava l’impressione  di una bambina che ha un bisogno disperato di attenzione ed è disposta a tutto pur di procurarsela ”.

Hofi del secondo piano (conciliazione desideri/realtà)ha rinunciato al lavoro per seguire i due figli, ma il marito Assaf è sempre lontano e lei si sente inquieta. L’arrivo inaspettato del cognato Eviatar, in fuga perché inseguito dai creditori, sembra darle momentaneo sollievo dalla solitudine. In lei c’è il terrore di finire in manicomio come la madre, in quanto crede di immaginarsi tutta la vicenda.

Infine Dovra, giudice in pensione, parla al marito defunto tramite una segreteria telefonica. La sua è stata una vita di rigore, ordine, ma l’unico figlio Adar ha rotto i ponti con i genitori, dopo una catena di errori che non gli sono stati perdonati: “ Avete imposto degli standard impossibili in casa, era inimmaginabile vivere al livello delle vostre aspettative…Come facevo io a trovare la mia di strada?”

Dovra ha il coraggio di cambiare radicalmente il proprio stile di vita: “se c’è una cosa che le ultime settimane mi hanno insegnato è che le persone sensate non esistono. E nemmeno le azioni sensate. Esiste solo l’azione che una persona specifica, in un momento specifico, deve compiere.”

Questo romanzo, secondo me, parla di “famiglia” in senso lato, dei condizionamenti che i protagonisti hanno avuto nelle loro famiglie d’origine, del lascito di madri anaffettive…

Sono messi sotto la lente d’ingrandimento i rapporti di coppia e come questi siano condizionati da visioni diverse della vita. Passato il momento della passione, la sfida del quotidiano mette in evidenza differenti aspettative e visioni della vita.  

Hofi, ad esempio, si sente sola, ma Assaf, il marito spesso in viaggio per lavoro, a sua volta evidenzia gli errori della moglie, che è troppo possessiva con i figli. Non esiste un’unica verità, ma la realtà si modifica secondo lo sguardo di chi la vive.

Quello che pesa di più nell’esperienza dei personaggi è il sentirsi inutili, Come osserva Dovra: “Non c’è niente di peggio che sentirsi inutili, Michael. Inutili la mattina. Inutili il pomeriggio. Inutili la sera…”Il senso di inutilità e frustrazione che prende chi abbandona la vita attiva per rifugiarsi tra le mura domestiche. Solo aprendo l’interesse al “mondo” si può ritrovare un senso, come fa Dovra, che lascia la casa e si butta in nuove esperienze.

Il romanzo è ambientato in Israele e ci sono parecchi riferimenti alla realtà politico-sociale di quel paese: il retaggio della shoah, il conflitto con i palestinesi, le tensioni sociali, l’incontrollata espansione edilizia, la nascita degli insediamenti agricoli in zone pre-desertiche, l’esperienza della leva militare obbligatoria…

Paesaggi essenziali, colori sfumati, con ambientazione per lo più in interni.

Una scrittura fluida e la capacita di penetrazione psicologica caratterizzano questa lettura.

Eshkol Nevo è nato a Gerusalemme nel 1971. Dopo un’infanzia trascorsa tra Israele e gli Stati Uniti, ha completato gli studi a Tel Aviv e intrapreso una carriera di pubblicitario, abbandonata in seguito per dedicarsi alla letteratura. Oggi insegna scrittura creativa in numerose istituzioni. Oltre a Nostalgia (2014), in classifica per oltre sessanta settimane e vincitore nel 2005 del premio della Book Publisher’s Association e nel 2008 a Parigi del FFI-Raymond Wallier Prize, per Neri Pozza ha pubblicato: La simmetria dei desideri (2010), Neuland (2012) e Soli e perduti (2015).

Arte al femminile (443)

Continuo la sintetica “carrellata” su alcune artiste ebree.

Eva Fischer nasce a Daruvar (Croazia) nel 1920 da una famiglia ebraica ungherese.

«Da piccola disegnavo ovunque: sui muri di casa, sulle tende, sull’asse di legno dove mia madre impastava… Un giorno la mamma partì per Budapest con qualche mio lavoro in borsa per chiedere al direttore dell’Accademia se vedeva del talento. E lui disse: sì, deve andare avanti!»

Si diploma all’accademia di Belle Arti di Lione e nel 1941 è con la famiglia a Belgrado. La città è devastata dai bombardamenti tedeschi (senza dichiarazione di guerra!) e il padre di Eva, Leopoldo, rabbino capo e talmudista (il talmud è uno dei testi sacri dell’ebraismo) viene deportato dai nazisti, insieme a decine di parenti. Inizia per Eva un periodo travagliato, fatto di fughe, privazioni e duri sacrifici.

Eva, la madre e il fratello minore tentano la fuga, ma sulla sponda adriatica sono catturati e deportati nel campo di Vallegrande (isola di Curzola), gestito da un’amministrazione italiana.

Il modello adottato in questo campo, anche per gli ebrei, è quello del campo di confino, per cui agli internati è concessa una certa autonomia organizzativa e un po’ di libertà di movimento. Gli internati possono ricevere aiuti e assistenza dall’esterno. In seguito a una malattia della madre, Eva la accompagna e la assiste nell’ospedale di Spalato. Il permesso lo ottiene in cambio di ritratti fatti a militari italiani. Grazie all’aiuto di alcuni membri del Partito d’azione, Eva e i suoi familiari, sotto il falso nome di Venturi, fuggono a Bologna nel 1943.

Ha raccontato a Pagine Ebraiche: “A causa della guerra venimmo in Italia, io mi fingevo sordomuta per non far riconoscere il mio accento. Mio fratello Eric invece faceva il medico in Svizzera. Molti coprirono me e mia madre in quel periodo: il nome ufficiale da dire a tutti era Eva Venturi. Un giorno il vicino fascista, insospettito dal viavai di presunti partigiani in casa nostra, voleva incastrarci. Spiegai con molta tranquillità che quei bravi ragazzi volevano da me semplicemente un ritratto”.

 A guerra terminata lei e i suoi familiari si stabiliscono a Roma, dove Eva entra in contatto con il gruppo di artisti di via Margutta.

Conosce personaggi di valore e fa amicizia con De Chirico, Guttuso, Campigli e Mafai, per citarne alcuni, oltre che con il poeta Giuseppe Ungaretti e gli scrittori Sandro Penna, Giuseppe Berto e Alfonso Gatto. Incontra Pablo Picasso a casa del regista Luchino Visconti e viene incoraggiata dal pittore a progredire nella sua pittura dedicata a scorci paesaggistici dalla luce “misteriosa”.

La sua prima personale avviene a Roma, nel 1947, alla Galleria La Finestra.

Durante un lungo soggiorno parigino, ospite dello scultore Adkine, incontra Marc Chagall, di cui diventa ammiratrice e amica devota.

A Madrid ha modo di lavorare nell’atelier di Juana Mordò, legandosi a molti artisti spagnoli in lotta contro la dittatura franchista.

La sua vita è fatta di continue migrazioni: negli anni sessanta è a Londra, dove espone alla Galleria Lefevre, in Israele, a Gerusalemme e a Hebron, negli Stati Uniti, dove trova numerosi collezionisti ed estimatori.

Nel 1963 sposa il giornalista, artista, scrittore e poeta Alberto Baumann più giovane di lei di 13 anni, da cui ha il figlio Alan.

Le piace scambiare punti di vista, opinioni, condividendole con personalità artistiche, politiche economiche…

Negli anni ’80 ottiene dalla Comunità europea il riconoscimento di “artista europea”.

Nel 1991 a Kfar Saba (Israele) nasce una Fondazione a lei dedicata.

Nel 2008 ottiene l’onorificenza di “Cavaliere al merito della repubblica italiana”.

Muore nel 2015, a 94 anni, nella sua casa di Trastevere a Roma.

La sua arte è caratterizzata da colori caldi, “mediterranei” e da una profonda solarità, dalle liquide trasparenze. Si è dedicata alla pittura a olio, alla grafica, al disegno (con carboncino, pastelli e china) e alle vetrate.

Del periodo nazista serba un ricordo senza rancore, ma lo illustra in quadri malinconici e grigi, con sguardi di uomini più stupiti che spaventati e bambini immobili nel gelo dei vagoni.

“Ha vissuto intensamente per quasi 95 anni, lottando come donna, come ebrea, come artista, come le tre cose assieme, perché rimase sempre convinta di tutto quello che era. Alcuni ricordano i suoi grandi occhi neri, la sua grazia, ma soprattutto i colori dei suoi quadri, spesso melanconici, sempre arricchiti dalle trasparenze create dal suo stile personalissimo.”(Alan David Baumann)

Arte al femminile (442)

Paola Consolo nasce a Venezia nel 1908. La mamma è la poetessa Eugenia Consolo, autrice anche di testi teatrali. È nipote di Margherita Sarfatti, importante critica d’arte, donna colta e intelligente, conosciuta soprattutto per la sua relazione con Benito Mussolini, che ha aiutato nella sua affermazione sociale e politica.

Si avvicina all’arte come autodidatta e per perfezionarsi frequenta l’atelier di Achille Funi, pittore, scultore, architetto, scenografo e grafico. Partita da suggestioni impressioniste, si avvicina al gruppo Novecento, movimento artistico nato a Milano alla fine del 1922. Questo movimento è creato da artisti provenienti da esperienze e correnti artistiche differenti, che vogliono un “ritorno all’ordine” nell’arte, dopo le sperimentazioni avanguardistiche del primo Novecento (futurismo e cubismo). Fanno riferimento all’antichità classica, cercando purezza nelle forme e armonia nella composizione.

Nel 1926 fa un viaggio a Tunisi e rimane colpita dai caldi colori di quella terra esotica, che traspone nelle sue tele.

Il suo esordio artistico avviene alla prima Mostra del Novecento Italiano, organizzata dalla Sarfatti alla Permanente di Milano nel 1926: Paola ha solo 17 anni! Partecipa alla Biennale di Venezia negli anni 1928, 1930 e 1932.

In ambito internazionale espone a Parigi, Nizza e Basilea. Nel 1931 è presente alla prima edizione della Quadriennale Romana.

Nel 1931 sposa Gigiotti Zanini, pittore e architetto.

Muore giovanissima, a 24 anni, nel dare alla luce la prima figlia.

Vecchiaia come risorsa

Il weekend è un romanzo introspettivo, in cui le protagoniste sono tre settantenni: Jude, meticolosa, rigida e intransigente, ex direttrice di ristoranti famosi, Adele, ex attrice ancora bella, ma ormai fuori dalle scene, rimasta senza soldi e senza casa e infine Wendy, intellettuale, anticonformista, docente universitaria e scrittrice, accompagnata dal cane Finn, ormai vecchio e malandato.

Le tre amiche di vecchia data si ritrovano in una località di mare australiana, Bittoes, per svuotare la casa della loro amica Sylvie, deceduta da un anno.

In quella casa hanno trascorso insieme molti momenti di vacanza, ma ora, senza Sylvie, si sentono disperse e confuse. Siamo in pieno clima natalizio, che in Australia coincide con il periodo estivo, ma loro non riescono a lasciarsi coinvolgere dal momento e sono disorientate.

“Da quando Sylvie non c’era più, era come se Adele, Wendy e Jude fossero mal assortite. Prima erano in quattro, c’era una simmetria. Quando andavano in vacanza prenotavano due doppie. A tavola c’erano quattro posti, due per lato. Ora invece si era creato un vuoto terribile, innaturale.”

Il romanzo, attraverso un narratore onnisciente, ci fa conoscere i pensieri, le riflessioni, i ricordi, i dolori e gli acciacchi delle tre protagoniste. Emergono segreti, rancori, tradimenti e fatti rimasti soffocati per anni. Senza Sylvie sembra che il rapporto di amicizia si sgretoli. Ognuna sembra vedere per la prima volta i difetti delle altre, si domanda che cosa le abbia tenute insieme per anni… Ognuna vede nell’altra i segni della vecchiaia, che rifiuta in se stessa. In più c’è la malinconia di chi, arrivato a una certa età, deve affrontare l’idea della morte, molto più assiduamente di prima.

“Ma ormai Adele aveva più di settant’anni, disse la voce dubbiosa nella testa di Wendy. Nessuno ti vuole più quando sei vecchia. Devi farti trovare pronta. Devi affrontare la peggior versione possibile del futuro, devi prepararti. Anticipare, adattarsi, accettare.”

Il cane Finn, di diciassette anni, sporco e spelacchiato, è un coprotagonista: a lui è legata Wendy, che lo accudisce con amore, con lui fanno i conti Jude, che finisce per accettarlo e nell’impassibilità del suo sguardo canino Alice vede un messaggio su come trovare forza.

La casa di Sylvie, trascurata per la mancanza da tempo delle cure della padrona di casa, simboleggia un po’ l’amicizia tra le tre donne, che aveva in Sylvie l’elemento catalizzatore, la pacificatrice.

Si presentano diversi modi di vivere la vecchiaia: Adele cerca in tutti i modi di stare in forma, mantenendosi in esercizio ed è ancora bella, Wendy si è rassegnata a un corpo cambiato e pensa che curarsi non serva a niente, Jude è severa con la propria immagine e ci tiene a curare i dettagli. Rimane comune il desiderio di trovare nuove prospettive e fare progetti

Il rapporto con il passato si manifesta nel modo in cui ognuna si prende cura della casa: Adele è nostalgica e non butta via niente, Jude ha una memoria selettiva e tiene solo ciò che può servire, Wendy butta via tutto.

Il tempo fa da sfondo ai sentimenti: è caldo e opprimente nei momenti più difficoltosi, c’è temporale quando si vivono tensioni e infine la liberazione è associata al mare che si è placato.

La solidarietà, il superamento delle differenze e l’affetto sono simboleggiati da un mare tornato calmo, in cui poter immergersi senza paura….

Un bel libro, che fa pensare al senso della vita, ai diversi punti di vista con cui fare i conti, al tempo che scorre e a come affrontarlo.

Scrittura impeccabile! Ironia e realismo per una storia che tocca un tema particolare e “delicato”.

Charlotte Wood è una scrittrice australiana, considerata tra le cento donne più influenti del paese secondo l’Australian Financial Review. Nel 2016 con il suo romanzo The Natural Way of Things ha vinto lo Stella Prize, l’Indie Book of the Year and Novel of the Year e il Prime Minister’s Literary Award. Ha scritto per il New York Times, il Guardian, Literary Hub, il Sydney Morning Heralde, il Saturday Paper.

Il weekend è il suo ultimo romanzo, tradotto in numerosi paesi

Arte al femminile (441)

“La risonanza della voce femminile, nella prima metà del Novecento, è in generale molto limitata, e ciò vale ancor più per le donne ebree. Penalizzate dall’appartenenza ad una minoranza che di per sé ne condiziona l’emergere sulla scena culturale, esse si vedono accomunate alle sorti delle loro contemporanee non ebree dal pregiudizio, tanto infondato quanto radicato, che l’uomo debba essere il solo depositario della vera professionalità. Il ruolo che le donne ebree hanno ricoperto nell’arco dei secoli in seno all’ebraismo le porta ad una posizione maggiormente defilata nell’ambito sociale quanto, invece, centrale nella realtà familiare. Non per questo esse furono assenti o esitanti nell’assumere con la massima competenza iniziative di primo piano sulla scena culturale e artistica. Mediando continuamente tra la vita pubblica e la vita privata, tra l’identità religiosa e quella nazionale, esse realizzarono un operato sostanzialmente legato e concorde a quello che andava consolidandosi sulla scena della cultura europea contemporanea. Plurilinguismo e pluriculturalismo sono valori che contraddistinguono un’attitudine della conoscenza libera da pregiudizi, propria anche di molte altre protagoniste sulla scena artistica tra le due guerre.”(Gabriella Gnetti)

Wanda Coen Biagini nasce a Pesaro nel 1896. La sua è una famiglia di tradizione ebraica.

Studia all’accademia di Belle Arti a Bologna e quindi si trasferisce a Roma per completare la propria formazione artistica.

A Roma frequenta l’ambiente artistico, allora molto vivace.

Nei primi anni Venti conosce e sposa Alfredo Biagini, scultore, decoratore e ceramista, appartenente a una famiglia di illustri orafi romani.

La collaborazione con il marito la porta ad avvicinarsi all’arte della ceramica. Realizza molti lavori che cuoce nelle fornaci romane e commercializza nel negozio di Ferruccio Palazzi, che ha una galleria d’arte a piazza Venezia, dove accoglie una mostra permanente di ceramiche, quadri, sculture e lavori di arti applicate, oltre a organizzare manifestazioni culturali e concerti.

Partecipa a ben tre Biennali di Venezia, due Biennali e due Quadriennali a Roma.

Wanda, figura di spicco nel campo artistico italiano, apprezzata da artisti come Giorgio De Chirico e Giacomo Balla, vede la propria carriera interrotta bruscamente con l’entrata in vigore nel 1938 delle Leggi Razziali. Non può esporre, deve rimanere all’ombra del marito e trovare protezione lontana dalla propria casa. Rinuncia al suo cognome ebraico e inizia a firmare i propri lavori con il solo cognome del marito. Riesce a salvarsi dalla deportazione rimanendo nella semiclandestinità.

“Nel 1942, un anno prima del Sabato nero, il rastrellamento del ghetto di Roma, dipinse il Ritratto di donna velata, un’annunciazione in cui la donna ebrea, con le mani incrociate sul petto e rivolte verso l’interno, simile alle Madonne antiche, contiene in cuor suo un dolore troppo grande e affida le ultime tracce di speranza alla volontà del Cielo.” (Roberto Malini, poeta, scrittore e storico, da molti anni impegnato nel salvataggio di opere di artisti ebrei- Premio Pasquale Rotondi-Mecenatismo 2018)

Alcuni suoi dipinti sono conservati alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma.

Muore a Roma nel 1952.

Presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma si è tenuta nel 2014 un’importante mostra dal titolo “Artiste del Novecento tra visione e identità ebraica”, nel corso della quale sono stati esposti anche lavori di Wanda Coen. Tale esposizione ha avuto come scopo quello di ampliare la conoscenza della realtà ebraica, dando giusto risalto a esperienze femminili, che hanno trasformato una condizione di minorità sociale in una spinta per affermarsi ed esprimere indipendenza creativa.