Arte al femminile (349)

L’Inghilterra ci offre un’altra interessante figura di artista. 220px-Louise_Jopling,_by_Herbert_Rose_Barraud.jpg

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Louise Goode Jopling nasce a Manchester nel 1843, quinta figlia di un dipendente delle ferrovie. Donna dai multiformi interessi, è scrittrice, pittrice, attrice, una delle più versatili artiste dell’età vittoriana. A 17 anni sposa il funzionario Frank Romer. Appassionata di arte viene incoraggiata ad approfondire le proprie tecniche. Dal 1860 studia a Parigi e ha la possibilità di esporre i suoi lavori al Salon.

Nel 1872 rimane vedova e nel 1874 si risposa con Joseph Middleton Jopling.

Ottiene un discreto successo ed espone a Filadelfia nel 1876, a Parigi nel 1878 e a Chicago nel 1893. Anche lei non è immune alle discriminazioni di genere, tanto che perde alcune commissioni a favore di colleghi maschi.

Si unisce alla Society of Women Artists e alla Royal Society of Portrait Painters. Durante gli anni del matrimonio con Jopling diventa la principale fonte di guadagno per la famiglia, il che è per lei fonte di responsabilità e stress, perché richiede costante produzione, vendite regolari e una continua ricerca di commissioni e clienti. Nel 1879 si ammalano lei e il figlio, ma deve continuare a lavorare.

Louise dipinge soprattutto ritratti di personaggi titolati, ricchi finanzieri e attrici e, per operare in questo ambiente sociale, deve mantenere uno stile di vita alla moda, con uno studio a Londra disegnato appositamente da un architetto importante. Frequenta un circolo culturale, che annota tra i suoi aderenti personalità come Oscar Wilde. Il suo nome appare sui giornali locali, collegato a vari eventi mondani. Come altre pittrici (v. Kate Perugini e Marie Spartali Stillman) Louise fa da modella e soggetto per altri artisti.

Il marito Joseph muore nel 1884 e Louise sposa l’avvocato George W. Rowe nel 1887 continuando a usare il nome di Jopling professionalmente. Fonda una scuola di pittura per donne e scrive diversi articoli sul tema dell’insegnamento artistico. Sostiene il diritto delle studentesse d’arte di lavorare direttamente con modelli dal vivo, dato che la Royal Academy consentiva alle donne di osservare modelli maschili “accuratamente drappeggiati”.

Louise è sostenitrice della National Union of Women’s Suffrage ed è attiva nelle cause femministe. È per un periodo vicepresidente della Healthy and Artistic Dress Union, un’organizzazione di breve durata che promuove la riforma dell’abbigliamento negli anni tra il 1890 e il 1900.

Pubblica un libro di didattica d’arte e un’autobiografia, Vent’anni della mia vita. Ha anche scritto poesie e si è dedicata al giornalismo.

Muore nel 1933, a 90 anni.

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Libri per pensare

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“Ciò che possiamo fare”

La figura di Edith Stein rappresenta le contraddizioni del Novecento: ebrea di nascita, studia filosofia della conoscenza con Edmund Husserl, approfondisce il tema dell’empatia, si converte al cattolicesimo e finisce in una camera a gas ad Auschwitz, pur essendo suora carmelitana.

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Nata nel 1891 a Breslavia, in una famiglia di stretta osservanza ebraica, Edith ha quattro sorelle: una, Rosa, condividerà il suo destino. Dopo un’adolescenza in cui non riesce a trovare risposte alla propria inquietudine, si dedica con passione allo studio della filosofia. Ottiene ottime valutazioni, ma l’abilitazione universitaria le viene negata in quanto donna. Il suo maestro Husserl, di cui è stata assistente, le preferisce Martin Heidegger, che più tardi tenterà di dare fondamento filosofico al regime nazista. Edith sostiene il diritto di voto delle donne, traduce le opere di San Tommaso e, convertita al cattolicesimo, continua sino alla fine a studiare filosofia e a scrivere. All’avvento del nazismo, nel 1933 scrive una lettera a Papa Pio XI, presentandosi come «figlia del popolo ebraico, che per grazia di Dio è da undici anni figlia della Chiesa cattolica», riflettendo sulla situazione ebraica– “la Croce viene messa addosso al popolo ebraico” –, esortandolo a prendere una posizione chiara: un vero e proprio grido d’allarme che purtroppo rimane inascoltato. La svolta definitiva della sua vita avviene nel 1935 quando Edith diviene Suor Teresa Benedetta dalla Croce, la domenica successiva alla Pasqua, esattamente un anno dopo il momento in cui avverte la prima certezza della propria vocazione. Si è sempre sentita fuori posto, ma in convento trova la propria dimensione, “una gioia quieta e assoluta”, superando l’io individuale in una prospettiva di fede e amore universale. La morte ad Auschwitz nel 1942 è il momento finale di un destino assurdo. Viene uccisa perché ebrea, lei cattolica, consapevole dell’assurdità della sorte: “Vieni, Rosa, andiamo per il nostro popolo” dice alla sorella, che l’ha seguita in convento.

Edith viene santificata da papa Giovanni Paolo II il 1 maggio 1987 e diventa patrona d’Europa.

La scrittrice Lella Costa si confronta con questa donna affascinante, intercalando gli aspetti biografici con osservazioni personali. Riscoprire questa figura è un’occasione per riflettere sul nostro presente, sull’importanza del pensiero critico, sulla necessità di combattere ancora per i diritti delle donne, per recuperare il senso della propria responsabilità individuale e civile.

“Come ho cominciato a conoscerla, sono rimasta quasi sopraffatta dalla complessità di questa donna che da giovane ha fatto delle scelte così radicali. Direi che, soprattutto in un momento come questo, in cui sembra quasi che non avere talenti o vocazioni, non applicarsi, sia un titolo di vanto, la passione per lo studio, la serietà, il rigore, e l’assunzione di responsabilità di Edith Stein, poi Santa Teresa, mi hanno veramente conquistata; e mi è sembrato anche giusto raccontare questa storia proprio in questo momento.”

“La lezione di Edith Stein, però, rimane, ed è ancora attualissima. Esorta all’assunzione di responsabilità, all’ascolto, alla compassione. Solamente chi ha il coraggio di interrogarsi così riesce a capire quello che ancora possiamo fare per gli altri, qui e oggi.”

Lella Costa nasce a Milano nel 1952. Dopo il liceo classico, frequenta la facoltà di Lettere e supera tutti gli esami, senza però laurearsi. Si diploma all’Accademia dei Filodrammatici ed esordisce, dopo esperienze di traduttrice, nel 1980 nel suo primo monologo. Attrice, doppiatrice, ha al suo attivo trasmissioni radiofoniche e televisive particolarmente innovative: molti i monologhi da lei portati con successo in teatro. Ha anche partecipato ad alcune esperienze cinematografiche interessanti (si ricordi Ladri di saponette di Maurizio Nichetti). Molto attiva nel mondo dell’associazionismo, promuove da anni l’attività di Emergency, ha dato la sua voce per lo spot di Peacereporter e si è sempre distinta nelle battaglie a difesa dei diritti civili.

 

Tra sonno e veglia

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La casa del sonno di Jonathan Coe: questo romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1997, rappresenta uno di quei “classici” che prima o poi è bene leggere.

Siamo nei primi anni Ottanta: in un edificio severo e antico, ad Ashdown, recuperato come residenza universitaria, s’incrociano le vite di alcuni studenti, provenienti da varie parti dell’Inghilterra e inconsapevolmente destinati a legarsi per sempre. Sarah, riservata aspirante maestra, è agli sgoccioli della sua relazione con Gregory, inquietante studente di Medicina, in procinto di trasferirsi a Londra per specializzarsi in Psichiatria: questo rapporto è caratterizzato dallo squilibrio tra le prevaricazioni di lui e la sensibilità di lei. Sarah soffre di sfasamento tra i sogni e la realtà, il che le provoca situazioni imbarazzanti. Una volta finita la storia con Gregory incontra due persone fondamentali per lei: sono Robert e Veronica, il primo un timido studente di lingue perdutamente innamorato di Sarah e in crisi con la propria identità, l’altra una lesbica appassionata di arte e teatro. Dopo una decina di anni, nel 1996, Ashdown non è più una residenza universitaria, ma una clinica privata dove il dottor Gregory Dudden si occupa di problemi del sonno. Nelle sue “grinfie” finisce Terry, giornalista, afflitto da problemi di sonno e anche lui, anni addietro, studente alloggiato nella stessa Ashdown…

Tutti in qualche modo si ritrovano…

Il romanzo alterna episodi del passato con avvenimenti recenti, in un salto temporale di cui non si avverte quasi il passaggio, in un percorso parallelo tra giovinezza e maturità dei personaggi. “La casa del sonno” è il titolo del libro che costituisce un legame tra Veronica e Sarah, un loro codice segreto. Il sonno, con tutti gli elementi che lo caratterizzano, è uno dei fulcri tematici del racconto. In una trama decisamente originale si trovano vari aspetti: ricerca medica, descrizioni dettagliate di luoghi e persone, analisi psicologica, suspense, follia, amore, trasgressione, ricerca di identità di genere…Su tutti incombe Ashdown, questa struttura “enorme, grigia e imponente a venti metri dalla viva parete della scogliera”.

Ritengo sia una lettura molto interessante!

Quanta vita c’è in noi anche quando dormiamo!…

Vieni aurora, incendia la casa del sonno, inonda di luce l’ombra che bisbiglia ancora.”

“Quando perdi qualcuno e questo qualcuno ti manca, tu soffri perché la persona assente si è trasformata in un essere  immaginario: irreale. Ma il tuo desiderio di lei non è immaginario. Così è a quello che devi aggrapparti: al desiderio.Perché è reale.”

Lo scrittore Coe così parla dello scrivere:

“Il linguaggio è un traditore, un agente segreto doppio giochista che scivola tra un confine e l’altro nel cuore della notte. È una pesante nevicata su un paese straniero che nasconde le forme e i contorni della realtà sotto un manto di nebuloso biancore. È un cane azzoppato che non riesce mai a eseguire correttamente gli esercizi richiesti. È un biscotto allo zenzero che, lasciato a inzupparsi per troppo tempo nel tè dei nostri auspici si sbriciola, diventa niente.
È un continente perduto. Il linguaggio è un amante crudele e fedifrago; è un baro astuto dalle maniche pullulanti di assi; è un suono distante di flauto in una notte nebbiosa, che ci tormenta con melodie semi-dimenticate; è la luce all’interno del frigorifero che mai si spegne finché noi restiamo a guardarla; è una tovaglia troppo corta; è un coltello nell’acqua.”

Arte al femminile (348)

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Kate Greenaway nasce a Londra nel 1846, seconda di quattro figli. La sua è una famiglia di modesta estrazione sociale: la madre fa la costumista e il padre John è incisore. Kate vive un’infanzia di ristrettezze economiche, ma felice, e ha modo di osservare, nel negozio della madre, esponenti dell’alta società che indossano tipici abiti vittoriani. Molti dei modelli disegnati dalla mamma entreranno nelle sue illustrazioni. Quando il padre riceve un’importante commissione come illustratore, manda la famiglia presso parenti a Rolleston, nel Nottinghamshire. Questo luogo è particolarmente caro a Kate e desta la sua immaginazione, in contrasto con le grigie strade di Londra.

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Purtroppo il padre non viene pagato per il suo lavoro, in quanto l’editore che glielo ha commissionato va in bancarotta. Si trasferiscono così tutti a Islington, dove la madre apre un negozio di abbigliamento per bambini. Nella nuova casa c’è un giardino, di cui Kate parla nelle sue lettere, come luogo ricco di colori e ombre. Sin da bambina è affascinata dal lavoro del padre, ama i libri illustrati e le fiabe dei fratelli Grimm. Riceve a casa una prima formazione artistica e poi all’età di 12 anni s’iscrive ai corsi serali alla Finsbury School, seguendo lezioni di disegno, pittura su ceramica e porcellana, incisione su legno e litografia. Il grande limite del corso è la mortificazione della creatività, a discapito dell’abilità nella copia. Completato il corso, frequenta la Royal Female School of Art. Uno scoglio all’istruzione femminile è l’impossibilità di studiare anatomia. Diventa amica dell’artista Elizabeth Thompson (v.n.200), con cui condivide uno studio. Nel 1871, a 25 anni, prosegue gli studi presso la Slade School of Fine Art, dove sperimenta ancora i limiti imposti all’apprendimento delle donne, ma le viene insegnato a essere creativa e a trovare una propria espressione. Durante il percorso di studi lavora come illustratrice di libri per bambini e ottiene varie commissioni, che le fanno ottenere premi e riconoscimenti.

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Per comprendere come utilizzare al meglio i colori, studia i pittori della National Galery e i codici miniati del British Museum. Si specializza nella raffigurazione di biglietti di auguri: in questo periodo le cartoline di auguri, i biglietti natalizi, pasquali e di San Valentino hanno un grande mercato.

Kate ottiene grande successo per la delicatezza dei soggetti e vende molto bene le sue cartoline.

Viene eletta membro del Royal Institute of Painters in Water Colours nel 1889. Espone i suoi lavori nel 1893 al Palace of Fine Art, alla World’s Columbian Exposition di Chicago, Illinois.

Passa il tempo tra Londra e Rolleston, che rimane il luogo del cuore.

Dal 1883 al 1897 realizza una serie di almanacchi, illustra il Pifferaio di Hamelin e altre opere, occupandosi dei testi dei racconti. Si dedica anche alla pittura di quadri ad acquarello, non incontrando però il favore del pubblico.

Kate muore di cancro al seno nel 1901, all’età di 55 anni, depressa e convinta che il proprio lavoro valga poco.

I suoi soggetti sono ragazze, bambini, fiori e paesaggi dall’aria ingenua e semplice, pieni di freschezza, umorismo e candore. I suoi personaggi indossano abiti in versione tardo XVIII secolo, secondo la moda detta Regency: grembiule, abiti e tute a vita alta per ragazzi, abiti scamiciati e cestini di paglia per le ragazze. Kate scrive anche versi.

Il libro da lei illustrato nel 1878, Under the window, ha un successo inaspettato. La nostalgica ambientazione pastorale pre-industrializzazione, la delicatezza dei costumi, l’immagine di un’infanzia idilliaca, stregano il pubblico inglese. Il libro va esaurito in un attimo, vende oltre 100.000 copie e le immagini di Kate lanciano una moda. Vengono riprodotte in ogni dove: su tazze di porcellana, carta da parati, tessuti, pubblicità. Non sempre le riproduzioni vengono effettuate con il permesso dell’illustratrice e molti diventano suoi imitatori.

Nei suoi oltre 150 libri illustrati Kate è interprete di un’epoca e del cambiamento verso il Novecento. Viene considerata una delle più grandi illustratrici di libri per l’infanzia.

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Tra cronaca nera e romanzo

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Alla fine del romanzo la protagonista, Evelyn, fa un’amara constatazione: “Una donna veramente bella ha molti svantaggi rispetto a una donna normale, mia cara. La bellezza non può che portarle, come è stato per me, confusione e sofferenza. Devi essere molto più saggia e molto più ricca delle altre donne se hai avuto la sfortuna di essere bella. Non c’è altro modo per evitare il pericolo. La bellezza è una maledizione”.(pag.220)

Evelyn ha ben motivo per fare queste osservazioni, perché tutta la sua vita è stata segnata dal fatto di essere soprattutto una bellissima donna.

Evelyn a 16 anni, rimasta orfana dell’amato padre, per sfamare la madre e il fratello, diventa modella prima e ballerina poi. Lavora per i più grandi nomi dell’epoca e diventa l’incarnazione della American Dream Girl. Purtroppo incontra sulla sua strada il celebre architetto Stanford White, che convince la madre, a corto di soldi, a lasciargliela frequentare benché lui abbia 47 anni. White è un personaggio ambiguo, affascinante e imprevedibile, dedito alle avventure galanti e per anni avrà il controllo sulla vita di Evelyn. A 20 anni Evelyn sposa il milionario Harry K. Thaw, nonostante questi abbia manifestato segni di squilibrio mentale. Ancora una volta Evelyn cade in mani sbagliate. Cocainomane e sadico, Thaw infligge alla moglie torture psicologiche e fisiche, arrivando a frustarla. La sera del 25 giugno 1906 sulla terrazza del Madison Square Garden Harry vede White seduto a un tavolo e lo uccide sparandogli in faccia. Malgrado i testimoni, il primo processo non porta a nulla ed è necessario farne un altro. Grazie alla testimonianza di Evelyn, che si dice essere stata sedotta, ancora minorenne, da White, “convinta” dalla madre di Thaw che le promette di poter ottenere finalmente il divorzio (con relativa rendita), Thaw viene dichiarato infermo di mente e finisce in un manicomio criminale con grandi margini di libertà. Evelyn cerca di rifarsi una vita, ma il passato sempre ritorna…

L’autrice ha il pregio di non scavare nei sentimenti dei personaggi, non ricerca le ragioni delle loro azioni, ma fa in modo che sia il lettore a comprenderle, ricostruendo i fatti, con uno stile incalzante, che crea una tensione irresistibile.

Il titolo si riferisce a tutte le azioni compiute da Evelyn per salvare il marito: “Ero perfetta e sa perché? Volevo essere una brava moglie e speravo che tutti riconoscessero che lo ero.”

Si entra con questo libro nell’America degli inizi del Novecento, con le sue contraddizioni, le sue inquietudini, i soldi facili per alcuni e la miseria per tanti. Difficile per due donne sole, come Evelyn e la madre Elizabeth, riuscire a sopravvivere senza cedere a compromessi. Evelyn comunque cerca continuamente una propria realizzazione personale e alla fine la ottiene acaro prezzo…

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Cinzia Tani nasce a Roma nel 1953. Scrittrice, giornalista, conduttrice radiofonica e televisiva, esordisce nel 1987 con Sognando California. Seguono vari romanzi, tra cui Sole e ombre, che vince il premio Selezione Campiello nel 2008. Ultima pubblicazione è Donne di spade, del 2019.