Arte al femminile (384)

Ho fatto spesso riferimento alle difficoltà che le artiste trovavano in Italia nel passato , per pregiudizi e un mondo culturale piuttosto chiuso. Esempio emblematico è quello della pittrice Carla Maria Maggi.

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Carla Maria Maggi nasce a Milano nel 1913. La sua è una facoltosa famiglia della borghesia milanese e lei è l’unica figlia. Comincia a dipingere a 14 anni. Il padre, dopo molte insistenze, permette che vada nello studio del pittore Giuseppe Palanti, per imparare gli elementi fondamentali della pittura. S’iscrive poi all’Accademia di Brera, segnalandosi per il talento e la personalità artistica ben definita. Si cimenta anche nel nudo, con tele audaci per i tempi. Ottiene segnalazioni ed espone con successo alla Permanente di Milano. Si dedica soprattutto ai ritratti, ma dipinge anche figure intere, soprattutto donne in varie situazioni di intimità personale.

Il matrimonio con l’ industriale milanese Franco Mosca pone fine alla sua breve carriera artistica. Il marito considera la professione di pittrice troppo rivoluzionaria e inadeguata a una signora dell’alta società. Il marito le toglie il permesso di dipingere ritratti e, tanto meno, nudi, concedendole al limite di esercitarsi sulla natura morta. Piuttosto che essere artista a metà, Carla Maria ripone tutti gli strumenti di lavoro e i suoi dipinti nella soffitta della casa di campagna di Cuvio, sul lago Maggiore. Pennelli, tavolozza, cavalletto e un bel numero di dipinti e disegni vengono così abbandonati.

Nel 1997 l’ignaro figlio Vittorio li ritrova casualmente e scopre, con immensa sorpresa, di avere una madre pittrice. Carla non aveva più menzionato la propria vocazione artistica, nascondendo a tutti il proprio sogno infranto. “Sì, è vero, dipingevo un po’…amavo l’arte, ma è passato così tanto tempo”. Sarà a questo punto il figlio che cercherà di ridare alla madre la dovuta dignità artistica.

Carla muore nel 2004 e nel 2005 il figlio organizza una retrospettiva, che ridà alla madre il giusto spazio nella storia dell’arte milanese. Da quel momento si sono susseguiti mostre, pubblicazioni e articoli su di lei.

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Arte al femminile (383)

In questa viglia di Natale, voglio ricordare un’artista giovane, coraggiosa, che è stata imprigionata anche per la sua arte.

Zehra Dogan (Diyarbakir, 1989) è un’artista e giornalista curda, con cittadinanza turca. Dirigeva un’agenzia di stampa, Jinha, con personale tutto femminile. Nel 2016 si trova a Nusaybin, città turca al confine con la Siria. Viene arrestata con l’accusa di appartenere a un’organizzazione illegale e assolta nel 2017 per questo supposto reato, ma condannata a 3 anni di prigione per incitazione al terrorismo, avendo postato su Twitter un disegno sarcastico sulla devastante conquista turca della città di Nusaybin. Ad aggravare la situazione concorre il suo essere giornalista, impegnata nel denunciare le persecuzioni delle donne Yazide del nord dell’Iraq e aver fondato un’agenzia di stampa autonoma.

Colpa primaria è essere curda! Sperimenta tre diverse carceri turche: Mardin, Diyarbakir e Tarsor.

La sofferenza patita in prigione la spinge a dare sfogo al proprio immaginario, utilizzando tutto il materiale che riesce a reperire (cenere di sigaretta, tè, curcuma, buccia di melograno…su carta da giornale, frammenti di tessuto, cartine di sigaretta). Nascono immagini inquietanti, grovigli di figure, rappresentazioni del corpo femminile in vari contesti, specialmente di guerra.

Il 24 febbraio 2019 Zehra viene rilasciata. Attualmente vive in esilio a Londra.

Sino al 6 gennaio 2020 è possibile vedere la mostra a lei dedicata presso il Museo di Santa Giulia di Brescia. La mostra, organizzata con il patrocinio del Comune e della Fondazione Brescia Musei, diretta da Stefano Karadjov, è di particolare interesse.

Bansky le ha dedicato un graffito a Manhattan, con tante sbarre quanti i giorni da lei trascorsi in prigione.

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Questa donna artista rappresenta un luminoso esempio di coerenza e coraggio.

Ho sempre cercato di esistere attraverso i miei dipinti, le mie notizie, e la mia lotta come una donna. Ora, anche se sono intrappolata tra le quattro mura, io continuo a pensare che ho fatto assolutamente il mio dovere in pieno. In questo paese, buio come la notte, dove tutti i nostri diritti sono stati incrociati con sangue rosso, sapevo che stavo per essere imprigionata.
Voglio ripetere l’insegnamento di Picasso: pensi davvero che un pittore è semplicemente una persona che usa il suo pennello per dipingere insetti e fiori? Nessun artista volta le spalle alla società; un pittore deve usare il suo pennello come arma contro gli oppressori. Nemmeno i soldati nazisti hanno cercato Picasso a causa dei suoi dipinti, e tuttavia io sono a giudizio a causa dei miei disegni. Terrò disegno. Quando una donna rilascia fiumi di colori, è possibile lasciare la prigione. Ma sono solo pennellate …. Non dimenticate mai, è la mia mano che tiene il pennello! (earthriotaltervista)

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Arte al femminile (382)

Ancora artiste tedesche… Nei paesi del centro-nord Europa, nell’Ottocento, le artiste possono trovare propri spazi autonomi, anche se con difficoltà. In Italia, nello stesso periodo, le donne hanno ancora troppe limitazioni e devono confrontarsi con pregiudizi e legislazioni sfavorevoli.

Maria Countess von Kalckreuth nasce nel 1857 a Düsseldorf (Germania). Il padre e il fratello sono pittori e da loro acquisisce alcune tecniche di base. Continua poi a studiare privatamente a Monaco. Nel 1893 presenta i suoi lavori alla Fiera Colombiana Internazionale di Chicago, vincendo una medaglia.

Muore in giovane età a Dachau nel 1897.

Ai suoi tempi diventa famosa per i ritratti.

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Margarethe Hormuth-Kallmorgen nasce anche lei nel 1857 a Heidelberg. Studia privatamente con un maestro del tempo.

Nel 1882 sposa il pittore Kallmorgen, da cui ha due figli. Nel 1893 espone a Chicago, alla Fiera Colombiana. Nel 1898 diventa membro del Karlsruher Malerinnen-Vereins. Nel 1902 si trasferisce a Berlino, perché il marito ha un incarico presso l’Università. Da questo momento Margarethe riduce la propria attività di pittrice.

Muore a Heidelberg nel 1916.

La sua specialità sono le nature morte, soprattutto dipingere fiori.

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Scomparire nelle storie

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La ragazza selvaggia è un romanzo particolare, ambientato ai giorni nostri tra Roma e l’immaginaria riserva naturale di Stellaria. Tessa, una ricercatrice che si sta occupando della riserva, ritrova ai margini del bosco Dasha, la protagonista della storia, la ragazza selvaggia. Dasha è ferita e Tessa la cura e, seppur riluttante, decide di riportarla dal padre. Dasha era scomparsa dieci anni prima e rimasta introvabile nonostante le continue ricerche. Ha alle spalle una storia complicata: proveniente da un orfanatrofio di Chernobyl e adottata con la sorella gemella Nina dal ricco industriale Giorgio Held, aveva rifiutato di integrarsi nella nuova realtà, chiudendosi in un ostinato mutismo. Legatissima a Nina (che invece accetta la nuova condizione), Dasha era stata da questa abbandonata nel bosco, azione di cui Nina si pente poi per tutta la vita.

Dasha è ormai allo stato ferino, il suo caso diventa pubblico e il padre fa di tutto per farla tornare com’era. Tessa a questo punto segue le vicende di Dasha, sentendosene responsabile e fa i conti con le proprie scelte. Altri personaggi sono coinvolti nella storia: la zia Sagittaria, la “strega” del paese, che ha cresciuto Tessa, Nina, rimasta in coma dopo uno spaventoso incidente, Nicola, innamorato di Nina, Agnese, la madre adottiva, fragile e sfuggente e soprattutto il padre, che alla fine deciderà quello che è meglio per Dasha…

Un romanzo quasi corale, che si collega alle storie di altri ragazzi selvaggi (penso a Mowgli, a Tarzan, al caso di Aveyron) e in cui la protagonista è senza parole, per cui viene vista e narrata da altri. Dasha rimane sino alla fine enigmatica, misteriosa e il suo vissuto nella foresta resterà velato di giallo. Ci si lascia coinvolgere dalla figura di Dasha, si prova un senso di inquietudine, perché nulla è certo e il destino della ragazza rimane aperto a varie possibilità. Nina e Dasha sono complementari, come lo sono in genere i gemelli: una è il lato oscuro dell’altra. Si riflette anche sulle relazioni familiari, sulle scelte d’amore, su quanto sia importante lasciare andare l’altro, accettandolo integralmente.

La tesi del libro non è che la vita umana e civile sia, o non sia, migliore, di un’ipotetica altra vita, perché in realtà quest’altra vita non è per noi possibile, perché la natura e la cultura sono così intimamente mescolate dentro di noi che in realtà è impossibile capire dove passi il confine.

Il tema della scomparsa riappare in un altro romanzo della Pugno, La caccia.

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Nell’immaginario stato di Leilja, sotto il controllo di una dittatura “tecnologica”, è scomparso Nord, ex miliziano. Nord e il fratello Mattias sono legati dalla telepatia e dal ricordo del padre perduto sulla montagna, il Gora, dove vive una Bestia misteriosa, ossessione dei due, che la vorrebbero trovare. A complicare la questione c’è il ritrovamento a casa di Nord del corpo di una ragazza bellissima, dai luminosi capelli rossi, senza apparenti segni di violenza. Nel breve romanzo si alternano episodi che riguardano Nord e altri che hanno come protagonista Mattias. Sul Gora sta il senso della loro origine e sul monte si perderanno le loro tracce, ma forse ritroveranno il filo della storia familiare. Anche in questo caso il finale è aperto.

Un romanzo strano, che ha qualcosa di fantascienza e di poesia insieme.

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Laura Pugno è nata a Roma nel 1970. Personalità eclettica, è scrittrice, poetessa e traduttrice. Di recente ha pubblicato i romanzi: La metà di bosco, La ragazza selvaggia e Sirene (Marsilio), la raccolta poetica I legni (Pordenonelegge/Lietocolle) e il saggio In territorio selvaggio. Corpo, romanzo, comunità (Nottetempo). Ha vinto il Premio Campiello Selezione Letterati, il Frignano per la Narrativa, il Premio Dedalus, il Libro del Mare e il Premio Scrivere Cinema per la sceneggiatura. È presente in varie antologie di prosa e poesia, ed è tra i curatori della collana di poesia I domani di Aragno. Ha insegnato Traduzione all’Università La Sapienza e ha tradotto una decina di romanzi e saggi dall’inglese e dal francese. Collabora con “L’Espresso” ed “Elle”, e con il sito “Le parole e le cose 2”. Ha collaborato con le redazioni culturali di “Repubblica Roma” e del “Manifesto”, con Radio Rai 3 per il programma “Il sogno di mezzanotte” e con Rai Educational per il progetto RaiLibro. Insieme ad Annamaria Granatello ha creato il Premio Solinas Italia-Spagna. Dal 2015 dirige l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid.

Arte al femminile (381)

In questo periodo prenatalizio si sviluppano messaggi “buonisti”, per ricordare chi vive situazioni difficili di vario tipo. Questo dovrebbe avvenire quotidianamente!

L’arte, come forma di espressione libera, ha sempre offerto a tutti la possibilità di esprimersi.

Un caso emblematico è quello dell’artista Judith Scott.

(Ho preso informazioni dal sito pianetadown.org e da Wikipedia).

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Judith Scott nasce nel 1943 a Cincinnati (Ohio): è la gemella di Joyce, ma Judith ha la sindrome di Down. Durante l’infanzia, ad aggravare la situazione, subentra la sordità. Sino a 7 anni Judith rimane in famiglia, con la sorella e i fratelli maggiori. I genitori cercano di seguirla come fanno con gli altri figli. Quando viene il momento di iscriverla a scuola, Judith non supera i test di ammissione e, su consiglio medico, viene inserita in un istituto per disabili mentali (1950). L’allontanamento dalla famiglia le crea una profonda sofferenza, che manifesta con un comportamento ribelle e aggressivo. Viene quindi trasferita in un’istituzione statale più piccola a Gallipolis.

La gemella Joyce continua a seguire il percorso della sorella e nel 1985, dopo 35 anni di separazione e un lungo percorso legale, riesce a farsi nominare tutore legale di Judith e a portarla a vivere con lei in California. Per tutto il periodo vissuto in istituto a Judith non hanno insegnato né a leggere né a scrivere, né tanto meno il linguaggio dei segni, non si sono neanche accorti che fosse sorda, non la hanno preparata al mondo esterno. La sua vita, quella vera, comincia il giorno che sua sorella la riporta a casa. Solo così Judith può dimostrare quante potenzialità nasconde dentro di sé, può rivelare un mondo interiore che nessuno neanche ha tentato di esplorare.

Nel 1987 Judith inizia a frequentare il Creative Growth Art Center di Oakland, una delle prime organizzazioni al mondo a dare spazio ad artisti con disabilità. Inizialmente Judith non riesce a trovare una propria dimensione artistica, poi per caso scopre quello che le piace: la scultura libera.

“La chiamavano la donna ragno, perché come un ragno catturava qualunque oggetto le capitasse per le mani: scatole di cartone, scarpe, sedie, poi le avvolgeva nella lana. E questi suoi oggetti colorati assumevano le forme più svariate: piedi, uccelli, sagome inventate.”

Per 18 anni questa attività creativa l’assorbe completamente e produce più di 200 pezzi.

Nel 1999 vi è la sua prima mostra e viene pubblicato un libro sulla sua arte.

Ottiene grande popolarità.

Judith è considerata il miglior esempio di una corrente d’arte che il pittore francese Jean Dubuffet chiamò Art Brut. Art Brut è un concetto introdotto alla fine della Seconda Guerra mondiale per identificare le opere d’arte create senza intenzione artistica o estetica, ma obbedendo piuttosto a un bisogno, a una pulsione creatrice o espressiva.

Il lavoro di Judith è diventato immensamente popolare nel mondo dell’arte.

Le sue opere si trovano nelle collezioni permanenti di numerosi musei, tra cui: Museum of Modern Art (Manhattan, New York)- la Visionary Art Museum Americano (Baltimora, Maryland)- Museum of Modern Art, San Francisco, CA- Museo d’Arte Popolare Americana (Manhattan, New York)- Intuit: Centro per l’Arte Intuitiva e Outsider (Chicago, Illinois)- Museo Irlandese di Arte Moderna, Dublino, The Oakland Museum, Oakland, L’Arancino Musee D’Art Brut(Parigi, Francia)- Art Brut Connaissance & Collezione di diffusione (Parigi e Praga)- Collezione dell’arte brut (Losanna, Svizzera).

Judith muore a 61 anni, nel 2005,a Dutch Flat (California).

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Arte al femminile (380)

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Dora Hitz nasce ad Altdorf bei Nürnberg (Germania) nel 1856.

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La sua è una famiglia della media borghesia tedesca, per cui può seguire un corso regolare di studi. A 6 anni la famiglia si trasferisce ad Ansbach e a 13 anni Dora viene mandata a Monaco, iscritta in una scuola d’arte per ragazze. In occasione della Mostra d’arte e industria del 1876, Dora conosce la principessa Elisabetta di Wied, futura consorte del re di Romania. Quest’ultima, colpita dalle sue capacità, la nominerà pittrice di corte. Dora dipingerà vari quadri, produrrà illustrazioni di libri e affreschi nella Music Hall del Castello di Sinaia.

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Dal 1880 si trasferisce a Parigi, per perfezionarsi alla scuola di maestri del tempo. Nel 1886/87 è in Romania, poi di nuovo a Parigi. Viaggia molto, come molte artiste contemporanee, soprattutto in Francia, visitando la Bretagna e la Normandia. Nel 1890 entra a far parte della Società degli Artisti Francesi e, in seguito, della Società Nazionale di Belle Arti.

Espone regolarmente al Salon dal 1892.

Torna spesso a Berlino, dove le vengono commissionati diversi ritratti da esponenti dell’alta borghesia.

Nel 1893 è presente alla Fiera Colombiana di Chicago.

Nel 1894 fonda una scuola d’arte femminile.

Nel 1898 è tra i fondatori della Secessione di Berlino (gruppo di artisti che si dissociano dalla Accademie ufficiali) e nel 1906 vince il premio Villa Romana, che le permette un soggiorno di un anno a Firenze.

Durante la prima guerra mondiale Dora si trova in gravi difficoltà finanziarie, peggiorano le condizioni di salute e questo la porta a isolarsi da tutto.

Dora muore a 68 anni, a Berlino, nel 1924.

Si può definire pittrice post-impressionista, con propensione al simbolismo.

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Arte al femminile (379)

Poche note biografiche per alcune pittrici tedesche, che si sono conosciute e si sono supportate a vicenda alla fine dell’Ottocento.

Paula Bonte nasce nel 1840 a Magdeburgo, in Germania.

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Studia pittura privatamente a Berlino. Si presenta alla Fiera Internazionale di Chicago del 1893. Condivide lo studio con la collega, pittrice paesaggista Marie von Keudell.

Muore a Berlino nel 1902.

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Marie von Keudell nasce a Launicken, nella Prussia orientale, nel 1838. Anche lei studia privatamente a Berlino. Espone alla Fiera Internazionale di Chicago del 1893, presiedendo la Commissione artistica tedesca.

Fa parte dell’Associazione degli artisti di Berlino dal 1867 al 1916. Espone i suoi lavori alle grandi mostre d’arte di Berlino. È amica di Paula Bonte.

Muore nel 1918 a Berlino.

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Elise Neumann Hedinger nasce a Berlino nel 1854.

potsdammer_premuro.jpgStudia in Germania e in Francia. Fa parte del gruppo delle pittrici tedesche presenti alla Fiera Colombiana di Chicago.

Si specializza nelle nature morte.

Muore nel 1923.

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Arte al femminile (378)

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La particolare condizione di artista, con tutte le difficoltà che questo comporta, spinge molte pittrici all’impegno sociale, come abbiamo già visto in altri casi.

Hanna Bieber-Böhm oltre che una brava artista è stata una femminista combattiva, impegnata nella difesa delle donne sfruttate e indifese.

Nasce nel 1851 a Glaubitten, nella Prussia orientale.

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La sua è una famiglia numerosa: è la prima degli otto figli del proprietario terriero Otto Böhm e di Bertha. La madre muore nel 1870 e Hanna deve assumere il ruolo materno e occuparsi dei fratelli. Nel 1874 il padre si risposa e lei può finalmente dedicarsi alla sua passione, la pittura. Parte per Berlino, per seguire corsi preparatori. Nei suoi primi lavori si trovano ritratti dei suoi familiari, vedute della casa di famiglia e della sua cittadina. Per ampliare le conoscenze in campo artistico inizia a viaggiare: Italia, Tunisia, Grecia, Costantinopoli. Di questa esperienza rimane traccia nei disegni a inchiostro e negli acquarelli, che rappresentano scene di genere e personaggi vari.

I suoi ritratti, dipinti di genere e paesaggi sono venduti bene in Germania, Italia e Nord America. Espone alle mostre della Konigsberg Art Association nel 1883 e 1887.

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Hanna presenta le sue opere al Woman’s Building dell’Esposizione Colombiana del 1893 a Chicago, Illinois. Fa parte della delegazione tedesca al Congresso delle donne durante l’Esposizione.

Nel 1888, a trentasette anni, Hanna sposa l’avvocato Richard Bieber, incontrato durante gli studi a Berlino. Questi ha sette anni meno di lei: di origine ebraica è diventato poi cristiano. I due vogliono sposarsi in chiesa, ma i pastori protestanti rifiutano l’autorizzazione al rito. Questo fa sì che Hanna si allontani dalla chiesa protestante. Dopo il suo matrimonio (civile), Hanna rimane membro dell’Associazione degli Artisti di Berlino, ma la sua pittura diventa un’attività secondaria, perché prevale l’interesse per la politica.

La Germania, sotto il cancelliere Principe Otto von Bismarck, sta crescendo sia economicamente che come popolazione, e si formano varie associazioni e club per affrontare le questioni sociali. Hanna viene coinvolta nel movimento di lotta per i diritti delle donne, che si occupa di prostituzione, protezione dei bambini e altre questioni. Le femministe presentano molte petizioni al Reichstag tedesco per ottenere cambiamenti nello status delle donne e pari diritti rispetto agli uomini. Nel 1889 Hanna fonda l’associazione Jugendschutz (Protezione della gioventù) a Berlino. Lo scopo è dare supporto alle ragazze sole in cerca di alloggio e aiuto nella ricerca di lavoro. Più tardi fa costruire un asilo nido e una scuola materna. L’obiettivo principale è proteggere le giovani donne senza famiglia dalla prostituzione.

Nel 1893 rappresenta l’Allgemeine Deutsche Frauenverein (ADF: German Women’s Association) alla prima assemblea generale del Consiglio Internazionale delle Donne, durante la Fiera Mondiale di Chicago, negli Stati Uniti. Nel 1894, in rappresentanza di Jugendschutz, partecipa alla fondazione del Bund Deutscher Frauenvereine (BDF: Federazione delle Associazioni femminili tedesche). Questa è un’organizzazione che promuove miglioramenti del diritto di famiglia, protezione delle lavoratrici e dei bambini, oltre ad altre cause, come la lotta contro l’alcolismo e la prostituzione. Hanna è co-fondatrice della scuola secondaria femminile Charlottenburg di Berlino, che viene successivamente rilevata dalla città.

Nel 1902 acquista un edificio a Neuzelle per lo Jugendschutz. Il posto è tranquillo ed è utilizzato come casa di vacanza per ragazze in cattive condizioni di salute, madri con bambini e donne anziane. Ad esso è collegata una scuola professionale, in modo che le donne possano essere addestrate per trovare lavoro al loro ritorno a Berlino. Il finanziamento proviene da sponsor, in particolare ebrei. Nel 1908 l’edificio ha 120 ospiti. Hanna continua a vivere a Berlino, ma visita regolarmente la scuola.

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Muore a Berlino il 15 aprile 1910 dopo una breve malattia, all’età di cinquantanove anni. Il suo corpo è cremato e collocato in una tomba in stile Liberty vicino alla casa di riposo Neuzelle.

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Arte al femminile (377)

Riprendo a ricordare le artiste presenti alla Fiera Colombiana di Chicago del 1893, prima esposizione internazionale con una struttura interamente dedicata alle donne.

Luise Begas-Parmentier nasce nel 1843 a Vienna. Seguendo l’esempio della sorella maggiore Marie, vuole diventare pittrice. Riceve la sua formazione da due noti artisti viennesi, il pittore paesaggista Emil Jakob Schindler e l’incisore Wilhelm Unger. All’età di 22 anni è in grado di mostrare immagini di ambienti rurali austriaci alle mostre annuali della Künstlerhaus di Vienna. Intorno al 1875 iniziano i viaggi di studio in Italia, specialmente a Venezia, dove trova soggetti per le sue rappresentazioni. I dipinti basati su motivi italiani sono esposti ogni anno dal 1876 alla Akademie Art Exhibition di Berlino. All’età di 27 anni sposa il collega Adalbert Begas, appartenente a una famiglia di artisti berlinesi (suo fratello è il famoso scultore Reinhold Begas). Adalberto, un pittore quasi dimenticato da allora, è, come sua moglie, un ammiratore dell’Italia. Dipinge scene di genere e altre immagini con contenuti romantici. La coppia si trasferisce in una casa con uno studio nel cosiddetto “Begas-Winkel” di Berlino. In questo “luogo poetico familiare in un angolo molto tranquillo della Berlino rumorosa” creano nature morte floreali, dipinti architettonici e paesaggistici, che sono descritti dai contemporanei come “capolavori di sensazioni, poesia e colori”. Una specialità di Luise sono soggetti dipinti con motivi romantici come intrecci di fiori o paesaggi italiani, secondo il gusto prevalente dell’epoca. Viaggi di studio portano ripetutamente la coppia in Italia – in Sicilia, Capri e Venezia. Adalbert Begas muore per un disturbo polmonare nel 1888 in uno di questi viaggi, vicino a Genova. Luise continua a ritrarre immagini dei suoi viaggi. Nel 1890 espone a Berlino due quadri con impressioni dalla Turchia, nel 1893 presenta a Chicago uno “Studio di Venezia”. Per diversi anni è membro del consiglio dell’Associazione degli artisti di Berlino, fondata nel 1867, per offrire alle donne una solida formazione artistica e opportunità di esporre le loro opere. Nel 1900 la rivista” Heim ” scrive: “Luise è una delle apparizioni più popolari e venerate del mondo degli artisti di Berlino, al centro di una socievole e artistica arte informale. “

La casa di Luise è un centro di ritrovo di personaggi della cultura e dello spettacolo:

“Tra gli ospiti di spicco della casa c’erano, tra gli altri, la ballerina Isadora Duncan, l’attrice Tilla Durieux, Reinhold Begas, l’editore Samuel Fischer, lo scrittore Alfred Kerr, lo scrittore e diplomatico Ernst von Wildenbruch e Harry Graf Kessler”.

Muore a Berlino nel 1920.

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Libri per capire

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Lezioni di tenebra è un romanzo con una forte componente autobiografica. La protagonista, Helena, è figlia di ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah. Nata e vissuta in Germania, si sente senza radici, estranea al suo ambiente, nonostante i tentativi della famiglia di prendere le distanze dalle proprie radici e adattarsi alla nuova realtà. Helena deve confrontarsi con il passato traumatico della madre, conoscere il senso e l’origine delle “lezioni di tenebra” che le sono state impartite nel corso della sua crescita. Deve trovare un senso al groviglio delle vicende familiari che non ha ancora compreso anche per la lunga reticenza che ha contraddistinto entrambi i genitori. Eppure, nonostante la sua personale ricerca, Helena ha capito che nessuno studio del fenomeno storico della soluzione finale potrà permetterle di mettere a fuoco la vera fisionomia – fisica, morale, psichica – dei genitori, dai quali sa di aver ereditato “la voglia di vivere, quella voglia primitiva che emerge dall’azzeramento […] l’unico antidoto che ho ricevuto”.

La madre è sopravvissuta alla famiglia per essere coraggiosamente fuggita dal ghetto della cittadina polacca di Zawiercie, pochi giorni prima del rastrellamento avvenuto nell’agosto del 1943. È una colpa che non si perdona e che sembra riaffiorare più forte con l’avanzare dell’età: «È quella che con due soldi in tasca è scappata dal ghetto, sapendo che lo stavano per liquidare, sapendo il significato di quelle parole, dicendo a sua madre “Me ne vado, non voglio bruciare nei forni!”».

Nel racconto si alternano spezzoni di testimonianze della madre, scampata al rastrellamento del ghetto, ma catturata nel maggio del ’44 in un appuntamento-tranello organizzato da un conoscente, alle vicende di Helena: il contrasto è segnalato dall’uso del corsivo, quando si parla dei ricordi della madre.

Passati tre decenni, madre e figlia decidono di recarsi in Polonia. L’episodio cruciale di questo viaggio sta nell’urlo disperato che scuote la signora Nina all’interno del campo di Auschwitz: «Piange, cinquant’anni dopo, in Polonia, urla di aver lasciato sola “la mia mamma, la mia mamma”. Strilla come un’aquila nel museo installato ad Auschwitz I […] davanti a una teca che mostra un campione di Zyklon B, urla di nuovo come una bambina “mamma, mamma”.»

Solo in quel luogo Helena capisce l’origine di alcuni comportamenti della madre: «Dice che non bisogna mai smettere di lavorare su se stessi. Parla di procedere nelle sfide, dimostrarsi quanto si vale, lodarsi da soli, così come spiega che ha imparato a mangiare con coscienza, sbattendomi in faccia quelle espressioni intraducibili profondamente assimilate, e io una volta a replicarle «guarda che termini più teutonici di quelli è difficile trovarne», e lei che davvero non capiva.»

Il libro fa comprendere quante conseguenze abbia ancora la tragedia della Shoah, quanto sia stato difficile per i superstiti ricostruire se stessi e la propria vita. Niente viene dimenticato dell’orrore vissuto e anche i discendenti risentono del male subito dai propri familiari. I genitori non riescono a essere sereni e vorrebbero inculcare nei propri figli una forza, che li renda immuni da ogni sopruso. C’è un senso di colpa che non abbandona, per essere sopravvissuti e la sensazione che la vita sia una lotta, in cui bisogna essere forti. Certe privazioni non si possono dimenticare, così come la fame, che rende la madre di Helena intransigente in modo ossessivo con la figlia sulle questioni del cibo. Un libro particolare, testimone di una generazione che risente di una tragedia che li ha risparmiati fisicamente, ma non psicologicamente.

“Paghi per ogni errore, anche il più piccolo, sempre e comunque… Ma che cosa sia un errore non lo sai. A questo non devi mai pensare”.

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Helena Janeczek, nata a Monaco di Baviera da una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da oltre trent’anni. Poetessa e scrittrice, ha esordito con la raccolta di poesie in lingua tedesca Ins Freie (Suhrkamp, 1989), mentre ha scritto in italiano il suo primo romanzo, Lezioni di tenebra (Guanda 2011, Premio Bagutta Opera Prima), che racconta del viaggio compiuto ad Auschwitz insieme alla madre, che lì era stata prigioniera con il marito. È inoltre autrice dei romanzi Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), finalista al Premio Comisso e vincitore del Premio Napoli, del Premio Sandro Onofri e del Premio Pisa. Nel 2017 esce per Guanda La ragazza con la Leica, romanzo incentrato sulla fotografa Gerda Taro, che vince la 72° edizione del Premio Strega. È redattrice di «Nuovi Argomenti» e di «Nazione Indiana».