Arte al femminile (402)

Nell’articolo precedente avevo ricordato Elena Guro, ma non si può dimenticare la sua insegnante, che, tra gli altri, ha avuto come allievo anche Marc Chagall, il grande pittore “onirico”(v.esempio)

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Elizaveta Zvantseva è stata la maestra di artiste di grande talento, come Elena Guro (v.n.401) e di altri importanti pittori. Fonda la scuola d’arte più progressista della Russia prima della rivoluzione del ’17. Tra gli ex studenti del suo istituto, come detto, c’è Marc Chagall.

Nasce nel 1864 nella tenuta di famiglia vicino a Niznij Novgorod (v.foto) da Nikolai Zvantsev, funzionario imperiale, che aveva progenitori ottomani. Il trisavolo di Elizaveta era un pascià ottomano, ucciso durante il conflitto russo-turco nel 1769. Successivamente i discendenti si mettono al servizio dello zar, che dona loro una tenuta, che viene via via ingrandita, viene aggiunto un rigoglioso parco, viene costruito un teatro estivo e organizzata una piccola scuola per bambini.

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Elizaveta cresce in una famiglia benestante e acculturata. Il nonno materno è un noto storico e scrittore.

S’ iscrive alla Scuola di Pittura, Scultura e Architettura di Mosca tra il 1885 e il 1888. Successivamente frequenta i corsi dell’Accademia delle Arti di San Pietroburgo.

Si reca in Francia, a Parigi, dove si perfeziona all’Accademia Julian e all’Accademia Colarossi.

Tornata a Mosca nel 1899 apre una scuola d’arte, che rimane attiva sino al 1906. Trasferitasi a San Pietroburgo fonda un altro istituto per l’insegnamento di disegno e pittura, che prende il suo nome. La scuola si trova al quarto piano di un edificio messo a disposizione dal poeta russo Vyacheslav Ivanov, che abita all’ultimo piano della casa. I confini tra gli appartamenti sono aperti, per cui si mescolano e incontrano pittori e scrittori. La scuola diventa un luogo di ritrovo per l’avanguardia intellettuale del tempo. Il metodo di insegnamento è progressista, puntando sullo scambio di spunti creativi, la ricerca di nuovi modi espressivi. Elizaveta introduce anche lo studio della figura umana, con lezioni di nudo anche femminile.

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Lascia l’insegnamento nel 1910, continuando la libera professione. Dopo la rivoluzione d’ottobre abbandona San Pietroburgo e torna a Nizhny Novgorod. Rientrata poco tempo dopo a Mosca, qui trascorre l’ultimo tempo della sua vita, gestendo un orfanatrofio per bambini di strada.

Muore nel 1921.

Di lei rimangono alcuni ritratti, che le hanno fatto suoi “colleghi”.

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Arte al femminile (401)

Dopo aver “esplorato” i paesi nordici, quelli dell’Europa centrale e la Spagna, mi incuriosisce la Russia, in cui fermenti letterari e avanguardie artistiche sono fiorenti alla fine dell”800, anche se sono poco conosciuti all’estero.

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Elena Guro nasce a San Pietroburgo nel 1877. Suo padre Genrikh Stepanovich è un ufficiale dell’esercito imperiale russo di origine francese. Sua madre Anna Mikhailovna è un’artista dilettante di talento. La sorella Ekaterina diventerà una scrittrice.

Elena trascorre l’infanzia nel villaggio di Novosely vicino a Pskov e nella tenuta del padre a Luga.

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Pskov-Kremlin-Krom.jpg (un angolo di Pskov)

open-uri20131012-1477-lnt865.jpg (particolare di Luga)

Dal 1890 al 1893 studia arte presso la Society for Encouragemente of the Arts di San Pietroburgo. Dal 1903 al 1905 studia privatamente. Nel 1905 illustra la traduzione russa di un libro di fiabe di George Sand. Il padre la aiuta dandole l’usufrutto di una proprietà in Finlandia.

Nel 1906 sposa il pittore e musicista Mstislav Dobuzhinsky, con cui segue i corsi della scuola di Elizaveta Zvantseva. I due sono legati da un rapporto sentimentale-creativo e Mstislav supporta parecchio la moglie. Nel 1908 aprono un proprio studio, che diventa anche luogo di ritrovo di artisti e letterati. Nel 1910-1913 Elena prende parte attiva alle mostre di The Union of Youth e altri.

Oltre alla pittura Elena si dedica alla poesia e al teatro, pubblicando alcune opere. Si lega dapprima agli ambienti simbolisti, sotto la cui influenza pubblica Sarmanka e Autumnal Dream. Successivamente entra a far parte del gruppo Gileja, di ispirazione cubo-futurista. La sua interpretazione del futurismo è personale, basata su un rifiuto della civiltà moderna e su una concezione elitaria e spirituale dell’arte, vista come antidoto alle volgarità del reale. Questo si manifesta nell’opera I cammellini del cielo pubblicata nel 1914.

Si ammala di leucemia, ma continua a scrivere e dipingere.

Muore nel 1913 nella sua casa di campagna finlandese..

Elena lascia un segno luminoso nell’avanguardia russa.

I suoi acquarelli si caratterizzano per una prevalenza di verde, colore che esprime la stasi e l’assenza di conflitti o colori solari.

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Libri sempre attuali

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Conan, il ragazzo del futuro, è indicato come libro per ragazzi, ma lo considero adatto a ogni età e particolarmente significativo in questo momento.

Si tratta di un racconto di fantascienza. Siamo in un periodo successivo a una spaventosa guerra mondiale, cui ha fatto seguito un disastro ambientale. Dopo la distruzione sono rimaste in piedi due realtà diverse: Industria, una città-stato organizzata in modo rigido, freddo, con principi fortemente idealizzati, senza libertà di pensiero e di coscienza e High Harbor, i cui abitanti sono tornati a un’epoca preindustriale, cercando di mantenere intatta la propria umanità, visti i pericoli di uno sviluppo sfrenato.

Conan, ragazzo sopravvissuto alla catastrofe, vive per anni da solo su un isolotto deserto. Scoperto da una spedizione, viene catturato e portato a Industria, dove ritrova Briac Roa, il Maestro, uno scienziato dotato di poteri telepatici, che si nasconde sotto false spoglie. I due fuggono da Industria e dopo molte peripezie raggiungono High Harbor…Il finale è brusco, lasciato quasi in sospeso.

C’è un buon crescendo narrativo, che rende avvincente la vicenda.

Abbiamo il quadro di come potremmo diventare e di quello che dovremmo essere. Si evidenziano i pericoli collegati a una società che punta tutto sulla tecnologia e l’omologazione, in contrasto con un’altra in cui vi è rispetto per la Natura e condivisione. Di forte impianto antimilitarista, immagina un mondo inquietante, mantenendo la speranza che tutto possa cambiare. Non ci sono buoni e cattivi, perché anche i personaggi crudeli hanno una propria complessità.

Un libro che fa pensare!

Al libro si sono ispirati i cartoni animati di Mida Miyazaki, molto conosciuti negli anni ’80.

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Arte al femminile (400)

L’Ottocento è un secolo importante per la pittura europea in genere. Ovunque ci si allontana dagli stilemi accademici e si cercano nuove modalità espressive. I fermenti artistici della Russia di fine Ottocento appaiono strettamente legati agli avvenimenti politici e in particolare ai primi movimenti rivoluzionari. Numerosi e fecondi sono i sodalizi tra artisti, scrittori e poeti.

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Sofia Ivanovna Kramskaya nasce nel 1866, figlia del pittore Ivan Kramskoy.

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Il padre è un innovatore, contrario alla rigidità accademica, uno dei fondatori e leader intellettuale del gruppo Peredvižniki, (Associazione delle Esposizioni Ambulanti) artisti realisti riuniti in cooperativa per realizzare mostre itineranti. La loro è una forma espressiva carica di rivendicazioni sociali e morali. Nei loro quadri mirano alla naturalezza e a dipingere relazioni tra le persone nel loro contesto.

Sposa l’avvocato George Junker, di San Pietroburgo.

Nel 1893 espone alla Fiera Colombiana di Chicago.

Passa diversi anni in esilio in Siberia, per essere stata attivista nella campagna antirivoluzionaria.

Suoi lavori si trovano nel Museo Hermitage di San Pietroburgo.

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Si specializza nel ritratto.

Muore nel 1933.

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Arte al femminile (399)

Torno alle artiste della fine dell’Ottocento-inizi Novecento e penso a paesi che sembrano marginali, ma in cui c’è grande vivacità intellettuale, come la Russia. Vi sono parecchi contatti tra Germania e Russia.

Olga Beggrow-Hartmann nasce nel 1862 a Heidelberg, in Germania. In famiglia vi è interesse per l’arte e lei è nipote del litografo russo Karl Petrowitsch Beggrow. Studia all’Accademia Statale di Stoccarda. Completati gli studi lavora come pittrice a San Pietroburgo, per cui la troviamo nel gruppo delle artiste russe che espongono alla Fiera Colombiana di Chicago del 1893. Viaggia in Italia e Francia, come fanno molte pittrici dell’epoca.

Sposata al pittore Karl Hartmann, vive con lui a Monaco. Ha una figlia, Ingeborg, che diventerà anche lei pittrice.

Muore a Monaco nel 1922.

Si distingue per le nature morte e le scene di genere, soprattutto immagini di bambini.

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Olga Bariatinsky , aristocratica russa, valente pittrice di figura, di paesaggio e di nature morte, nasce a Ginevra nel 1865 e muore a Roma nel 1932. Raffinata ritrattista, di lei si conserva, presso il Museo di Roma, un ritratto del conte Gregory Stroganoff, datato 1902. Il celebre collezionista russo Grigorij Sergeevic Stroganoff era titolare di una delle più importanti collezioni d’arte di fine Ottocento e inizi Novecento, smembrata e dispersa dopo la sua morte.

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Un ritratto del padre, Victor Baratinsky  viene esposto alla Fiera Colombiana di Chicago del 1893 (v. Il libro, Meraviglie dal palazzo, Dipinti disegni e arredi della collezione Wittgenstein-Bariatinsky da palazzo Chigi di Ariccia, Cangemi editore).

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Giornata mondiale della poesia

Inizio della primavera e giornata mondiale della poesia si coniugano da anni.

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Molto importanti le considerazioni sulla poesia di un grande poeta:

Il senso della poesia

«Bisognerebbe saper attendere e raccogliere, per una vita intera e possibilmente lunga, senso e dolcezza, e poi, proprio alla fine, si potrebbero forse scrivere dieci righe valide. Perché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si acquistano precocemente), sono esperienze. Per scrivere un verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna capire il volo degli uccelli e comprendere il gesto con cui i piccoli fiori si schiudono al mattino. Bisogna saper ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e congedi previsti da tempo, a giorni dell’infanzia ancora indecifrati, ai genitori che eravamo costretti a ferire quando ci porgevano una gioia e non la comprendevamo (era una gioia per qualcun altro), a malattie infantili che cominciavano in modo così strano con tante profonde e gravi trasformazioni, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al mare soprattutto, ai mari, a notti di viaggio che passavano alte rumoreggianti e volavano assieme alle stelle, e non basta ancora poter pensare a tutto questo. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche accanto ai moribondi bisogna esser stati, bisogna essere rimasti vicino ai morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori a folate. E ancora avere ricordi non basta. Bisogna saperli dimenticare, quando sono troppi, e avere la grande pazienza d’attendere che ritornino. Perché i ricordi in sé ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, anonimi e non più distinguibili da noi stessi, solo allora può darsi che in una rarissima ora si levi dal loro centro e sgorghi la prima parola di un verso».

(Rainer Maria Rilke, «I quaderni di Malte Laurids Brigge»)

 

 

E fu a quell’età… Venne la poesia

a cercarmi. Non so, non so da dove

uscì, da quale inverno o da fiume.

Non so come né quando,

no non erano voci, non erano

parole, né silenzio,

ma da una strada mi chiamava,

dai rami della notte,

d’improvviso tra gli altri,

tra fuochi violenti

o ritornando solo,

era lì senza volto

e mi toccava.

 

Io non sapevo che dire, la mia bocca

non sapeva

nominare,

i miei occhi erano ciechi,

qualcosa batteva nella mia anima,

febbre o ali perdute,

e mi andai facendo solo,

decifrando

quella scottatura,

scrissi la prima linea vaga,

vaga, senza corpo, pura

sciocchezza,

pura sapienza

di chi non sa nulla,

e vidi d’improvviso

il cielo

sgranato

e aperto,

pianeti,

piantagioni palpitanti,

l’ombra perforata,

crivellata

da frecce,

fuoco e fiori,

la notte travolgente, l’universo.

Ed io, essere minimo,

ebbro del grande vuoto

costellato,

a somiglianza, a immagine

del mistero,

mi sentii parte pura

dell’abisso,

rotolai con le stelle,

si sciolse il mio cuore nel vento. (Pablo Neruda)

 

Libri lunghi per tempi lunghi

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La famiglia Karnowski racconta una saga familiare che si snoda attraverso tre generazioni e tre paesi (Polonia, Germania e Stati Uniti). Il capostipite della dinastia è David, di religione ebraica, che agli inizi del Novecento lascia la Polonia in cui è nato, perché considera l’ambiente in cui è cresciuto troppo chiuso rispetto alle sue potenzialità e alla sua preparazione culturale. A Berlino acquista una posizione di prestigio e riesce a garantire agiatezza alla sua famiglia. Il figlio Georg diventa un chirurgo molto apprezzato e sposa una dolce infermiera di stirpe tedesca, nonostante l’opposizione della famiglia di lei. Ben presto però tutto viene messo in discussione dall’avvento del nazismo. Jegor, figlio di Georg, non riesce ad accettare la propria posizione di figlio di ebreo per parte di padre. Vorrebbe essere considerato come tedesco, ma subisce situazioni umilianti, Vive un’identità lacerata, disprezza se stesso e il proprio padre, che incolpa delle proprie sventure. L’aggravarsi della situazione spinge la famiglia a trasferirsi in America, dove tutto deve ricominciare daccapo, tra privazioni e umiliazioni. Jegor cerca un’alternativa, che si rivela un fallimento e capirà il valore del padre, unico punto fermo della sua vita.

Abbiamo un affresco della società ebraica in Germania dal 1860 al 1940, con un interessante approfondimento sulla varietà della stessa, sulle divergenze nel vivere la religiosità, sul modo di rapportarsi con i tedeschi, sulle loro attività economiche….Molte le descrizioni di uomini, personalità, ambienti, con cura dei dettagli e capacità di approfondimento psicologico. La figura del giovane Jegor, il suo conflitto interno, ben rappresentano il dramma di chi non ha un’identità precisa, di chi vive emarginato, mentre ha molte delle caratteristiche di chi lo emargina.

Un romanzo dalla scrittura sobria, elegante, che mantiene una propria misura anche nelle situazioni drammatiche. Molti personaggi secondari affollano il racconto, con una precisa personalità.

Un libro che ci fa rivivere un pezzo di storia non troppo lontano, che ancora oggi hai suoi strascichi.

Questo romanzo è giustamente considerato un grande classico della letteratura del Novecento, affresco di un mondo complesso, tormentato e profondamente segnato dalle ideologie. Nella scrittura l’autore ha riversato in modo distaccato parecchie delle proprie esperienze e del proprio “mondo”.

 

Israel Jousha Singer nasce a Bilgoraj, in Polonia, nel 1893. Il padre è un rabbino, autore di commentari rabbinici. Fratello maggiore del premio Nobel per la letteratura Isaac Bashevis Singer, esordisce nel 1922 con i racconti Perle, in yiddish, lingua che continua a usare per anni. Trasferitosi a New York scrive per un giornale americano yiddish e pubblica vari racconti. Il primo romanzo, Acciaio e ferro, esce nel 1927. Nel 1934 si stabilisce definitivamente in America. Nel 1936 esce I fratelli Ashkenazi. Altri romanzi sono: La fuga di Benijamin Lerner, Yoshe Kalb e le tentazioni, A oriente del giardino dell’Eden.

Muore a 51 anni nel 1944.

La sue memorie, Da un mondo che non c’è più (tradotto in italiano con il titolo La pecora nera) appaiono postume nel 1946.

La pubblicazione nel 2013 de La famiglia Karnowski (uscito nel 1943), lo riporta all’attenzione dei lettori, dopo decenni di dimenticanza.

Grazie Tina!

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In questo momento in cui la sanità è tornata a occupare l’attenzione generale, dobbiamo ricordare che è a una donna, a Tina Anselmi, che dobbiamo la nascita del Servizio Sanitario Nazionale. Prima della creazione del SSN, la sanità era gestita in modo eterogeneo. C’erano enti e casse mutualistiche che funzionavano come le assicurazioni sanitarie in vigore negli Stati Uniti. C’era chi aveva una mutua, pagata in parte con i propri contributi e in parte dal datore di lavoro, e poteva usufruire di determinati servizi fino a un tetto massimo di spesa, mentre tutto quello che non rientrava in questo doveva essere pagato di tasca propria. C’erano poi i medici condotti, la cui presenza dipendeva dal singolo comune che dava loro l’incarico, e varie altre strutture di carità o a gestione pubblica, che si occupavano di certi tipi di malattie che richiedevano lunghe degenze, come la tubercolosi (v. i sanatori). Il SSN viene istituito con la legge 833 del 23 dicembre del 1978, dopo molti compromessi e negoziazioni, per la determinazione di Tina Anselmi, allora ministro della Sanità. La sua costituzione si accompagna a due importanti conquiste per il diritto alla salute: la chiusura dei manicomi con la legge Basaglia (che verrà poi accorpata alla 833) e la depenalizzazione dell’aborto, con l’istituzione dei consultori pubblici.

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Tina Anselmi nasce nel 1927 a Castelfranco Veneto, in una famiglia di stretta osservanza cattolica: la madre si occupa della gestione di un’osteria insieme alla nonna di Tina, mentre il padre lavora in una farmacia e ha idee vicine al socialismo. Frequentato il ginnasio a Castelfranco Veneto, Tina s’iscrive all’Istituto Magistrale di Bassano del Grappa. A 17 anni viene costretta, assieme ad altri studenti, ad assistere all’impiccagione di più di 30 giovani da parte dei nazifascisti, per una rappresaglia. Da quel momento decide di entrare nella Resistenza e diventa staffetta partigiana col nome di Gabriella. Dopo la fine della guerra s’iscrive all’Università Cattolica di Milano e si laurea in Lettere. Lavora come insegnante e contemporaneamente s’impegna in politica aderendo alla Democrazia Cristiana.

Eletta deputato nel 1968, nel 1976 diventa prima donna ministro, come ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale prima e della Sanità poi, contribuendo in maniera decisiva a importanti riforme.

L’attività politica continua e nel 1998 riceve l’onorificenza come Dama di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Pubblica alcuni libri sulla sua esperienza e nel 2009 le viene attribuito un altro riconoscimento importante. Molte e varie le sue iniziative, soprattutto per la tutela dei diritti delle donne.

Il 2 giugno 2016 la sua immagine appare su un francobollo in occasione della festa della Repubblica.

Muore nel 2016 a Castelfranco Veneto.

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Quando la vita cambia

In questi giorni complicati, ho trovato particolarmente significativa questa poesia di Chandra Livia Candiani, una poetessa che mi piace molto.

La vita nuova

La vita nuova

arriva taciturna

dentro la vecchia vita

arriva come una morta

uno schianto

qualcuno che spintona così forte

un crollo.

È una scrittura tanto precisa

e netta da non lasciare dubbi

né sfumature di senso eppure

non dà direzioni né mete.
La vita nuova irrompe

come un vecchio che cade

sul ghiaccio, un pensiero

davanti a un muro, la

sirena di un’ambulanza.

……..

solo noi da convincere

a lasciar perdere il miraggio

di una vita rettilinea, di un

orizzonte, lasciarsi curvare,

piegare dalla tenerezza

delle anse del destino.

La vita nuova

è come un grande tuono

sbriciolato

poi a poco a poco

l’erba si china

sotto la pioggia

la prende

la beve.

(Chandra Livia Candiani)

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Chandra Livia Candiani è nata a Milano nel 1952. È traduttrice di testi buddhisti e tiene corsi di meditazione. Ha pubblicato le raccolte di poesie Io con vestito leggero (Campanotto 2005), La nave di nebbia. Ninnananne per il mondo (La biblioteca di Vivarium 2005), La porta (La biblioteca di Vivarium 2006), Bevendo il tè con i morti (Viennepierre 2007), La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi 2014) e Fatti vivo (Einaudi 2017). È presente nell’antologia Nuovi poeti italiani 6 curata da Giovanna Rosadini (Einaudi 2012). Nel 2018 ha pubblicato Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione (Einaudi).

La poetessa dice:

La poesia forse aiuta a non morire, a parlare dopo le morti che viviamo in vita. A ululare e cinguettare, soffiare e ruggire, fare versi. Non voglio dire al posto di un altro, dico scavando in me, ma certe volte incontro l’altro in quella buca profondissima, gli sfioro una mano e allora dico e l’altro si riconosce, ma non l’ho fatto apposta. Ho solo raggiunto un punto dove io e tu sono distinzioni arbitrarie, l’altro è me in un’altra forma. La poesia insegna a ricevere le parole, a farsi dire dalle parole, quindi è una faccenda di umiltà, di attesa, di spiazzarsi per non dire opinioni ma memorie antenate o fulmini intuitivi, lampi di futuro. È un dono e come tutti i doni può andare perduta o spezzarsi e come tutti i doni ci vuole gratitudine e ricettività e anche sapere che non ci appartiene. Il processo stesso di nascita di una poesia è misterioso e misteriosa è la relazione tra la vita del poeta e la sua opera. Spero quindi che trasporti un po’ di mistero nel mondo dove tutti sanno tutto. Mi sembra che l’esistenza stessa della poesia dica che il male è attraversabile e trasformabile, che la fuga non è l’unica soluzione, che di ogni cosa si può fare una mappa vivendola, una mappa che si forma camminando passo passo e passo passo si disfa e se c’è una via d’entrata, ce n’è anche una d’uscita. La poesia insegna a sostare e a perdere l’illusione del controllo. Ogni vita ha la sua dignità e ogni millimetro di caduta anche.(intervista della giornalista Grazia Calanna)

 

 

 

Arte al femminile (398)

Prima di tornare in Europa, ecco un’altra raffinata artista giapponese.

Shoen Uemura nasce a Kyoto nel 1875, secondogenita di un mercante di tè, che muore quando lei ha solo 2 mesi. Viene quindi cresciuta in un ambiente prevalentemente femminile, con la madre e le zie. La madre gestisce una casa del tè, frequentata da gente colta e raffinata. Shoen si dedica al disegno sin da bambina, dimostrando notevole abilità, tanto che la madre la incoraggia e la sostiene nella sua decisione di dedicarsi alla carriera artistica, che inizia a soli 15 anni. Questo è insolito per l’epoca. Per le tradizioni nuziali del Giappone, in particolare tra gli esponenti delle classi superiori, le spose sono dotate di un konrei chōdo (set di arredamento da sposa), che di solito contiene materiali artistici, come pennelli e vernici. Dotate degli strumenti necessari, molte donne si dedicano alla pittura come hobby individuale e privato, fuori dalla vista del pubblico e in un ambiente domestico. A causa della mancanza di un’educazione formale, poche riescono a intraprendere una carriera professionale come pittrici, indipendentemente da quanto possano essere talentuose. Tuttavia le donne che vivono con un artista professionista, come un padre o un marito, hanno le risorse e la guida per affinare le proprie abilità nel mestiere, anche se poche di queste diventano famose per il loro lavoro, non presentandolo all’esterno o non firmandolo.

Shoen invece viene mandata a studiare all’Università delle Arti di Kyoto, dove dimostra grande applicazione e tecnica. Dà alla luce un figlio, non dichiarando mai il nome del padre, e lo cresce come madre singola, con scandalo per il tempo. La sua reputazione rimane infangata anche perché ha in seguito una bambina, lasciando ugualmente segreto il nome del padre. Trova in questo aiuto e comprensione nella sua famiglia.

 Si specializza nella rappresentazione di figure umane, soprattutto femminili, eleganti ed aggraziate.

Nel 1893 alcuni lavori sono presenti nel padiglione giapponese della Fiera Colombiana di Chicago (v.n.327). Vince il primo riconoscimento nel 1898 e nel 1900 il primo premio nazionale.

A partire dal 1907 si concentra sul lavoro, partecipando a molteplici esposizioni. Un suo dipinto viene acquistato dalla famiglia reale inglese, in visita in Giappone e questo accresce la sua fama.

Migliora sempre più il proprio stile e varia i soggetti.

Tra il 1917 e il 1922 ha un periodo di crisi, per cui si ritira dall’attività pubblica.

Nel 1924 riprende a esporre e incomincia a realizzare opere di grande formato.

Nel 1941, prima donna in Giappone, viene nominata membro dell’Accademia Imperiale delle Arti. Nel 1944 è nominata artista della Casa Imperiale.

Durante la seconda guerra mondiale s’impegna attivamente in opere di propaganda e sostegno all’esercito e alla popolazione.

Nel 1945, peggiorando le condizioni di vita, si trasferisce alla periferia di Nara.

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Nel 1948 viene insignita dell’Ordine della Cultura, prima donna del suo paese.

Muore nel 1949.

I suoi quadri rappresentano soprattutto donne, sia come simbolo di bellezza che come esempi di donne del popolo impegnate in attività di vita quotidiana.

Bellissimi i colori, le tonalità e i dettagli delle sue figure.  Trovo stupendi i suoi lavori.

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