Arte al femminile (565)

Mi rituffo nell’arte…

Alice Rahon nasce Alice Marie Ivonne Philippot a Chenecey-Buillon (in Borgogna- Francia centro-orientale) nel 1904.

Da bambina passa le vacanze estive e natalizie nella casa dei nonni paterni a Roscoff, in Bretagna, posto che le è particolarmente caro.

Purtroppo verso i 3 anni si frattura l’anca destra, il che la costringe a letto per molto tempo, isolandola dagli altri bambini. A 12 anni cade di nuovo e si rompe una gamba, per cui per tutta la vita dovrà sopportare dolori lancinanti e assumere un’andatura claudicante.

Queste esperienze traumatiche l’inducono a isolarsi in un mondo immaginario, tenendosi occupata con la lettura, la scrittura e il disegno.

Altra esperienza dolorosa è il fatto di rimanere incinta molto giovane (il nome del padre non verrà mai rivelato) e perdere il bambino, morto dopo la nascita per difetti congeniti.

A un certo punto, poco più che ventenne, si trasferisce a Parigi, dove cerca lavoro. Inizialmente crea cappelli per la stilista Elsa Schiaparelli. Conosce il fotografo Man Ray, cui fa da modella e stringe amicizia con il pittore Joan Mirò.

Nel 1931 incontra l’artista austriaco Wolfgang Paalen, che sposa nel 1934. Tramite il marito entra in contatto con il movimento surrealista, di cui diventerà poi membro attivo.

Scrive raccolte di poesie, pubblicate con illustrazioni di artisti importanti.

Nel 1933 visita le grotte di Altamira, in Spagna, con le sue pitture rupestri policrome, che la colpiscono molto e ricorderà nel successivo sviluppo artistico.

Ha una relazione con Pablo Picasso, che lascia in quanto il marito minaccia per questo di suicidarsi.

I due coniugi pertanto, per superare la crisi, iniziano a viaggiare: Alaska, Canada, Stati Uniti, Libano e Messico, studiando l’arte indigena.

Nel 1936 Alice è in India e rimane fortemente colpita da questa esperienza.

Su invito di Frida Kahlo (conosciuta a Parigi) giunge a Città del Messico nel 1939. Nasce una profonda amicizia con Frida, con cui condivide la frustrazione di un corpo fragile e l’impossibilità di avere figli. Oltre a scrivere, inizia a dipingere, sotto la guida del marito.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale spinge Alice e Wolfgang a stabilirsi in Messico, dove Alice assume la cittadinanza nel 1946.

Nel 1947 divorzia dal marito e assume il cognome Rahon, derivato dalla nonna bretone. Dopo alcune relazioni di breve durata, sposa il canadese Edward Fitzgerald, scenografo. Con lui s’interessa di teatro e cinema, ma divorzia dopo alcuni anni.

Riprende un’intensa vita sociale e artistica, viaggiando frequentemente, sia per seguire le esposizioni delle sue opere negli Stati Uniti e in Messico, essendo diventata famosa, sia per approfondire la conoscenza del Messico.

Trascorre lunghi periodi ad Acapulco, diventando un’esperta nuotatrice e trovando in acqua sollievo ai suoi dolori.

Nel 1967 cade di nuovo, all’inaugurazione di una sua mostra a Città del Messico. Si danneggia la spina dorsale, ma Alice rifiuta qualsiasi cura medica, dicendo di essere stata torturata abbastanza dai medici.

Si isola nella sua casa di San Angel (Città del Messico) e negli ultimi tempi, non essendo autonoma, viene ricoverata in una casa di riposo. Qui rifiuta il cibo e si lascia morire nel 1987.

Artista prolifica soprattutto negli anni ’50 e ’60, apporta alcune innovazioni nel surrealismo, includendo elementi astratti e nuove tecniche, come l’uso dello sgraffito e della sabbia. Lo sgraffito consiste nell’utilizzo di colori sovrapposti. Una mano di vernice viene lasciata asciugare su una tela o su un foglio di carta. Un’altra mano di colore diverso viene stesa sopra il primo strato. L’artista utilizza quindi una spatola o un bastoncino per tracciare un disegno, lasciando un’immagine nel colore della prima mano di vernice. Ciò può essere ottenuto anche utilizzando pastelli a olio per il primo strato e inchiostro nero per lo strato superiore. 

I suoi temi includono paesaggi, miti, leggende, feste messicane ed elementi della natura. L’acqua appare spesso sia come soggetto che come colore: ha creato una serie di dipinti legati ai fiumi.

Suoi lavori sono inclusi nella collezione dell’Art Institute of Chicago, nel MoMa di New York, per citarne alcuni e in altre istituzioni pubbliche. Negli ultimi dieci anni c’è stata una rinascita di interesse per il suo lavoro.

“Nei primi tempi la pittura era magica; era una chiave per l’invisibile… il valore di un’opera risiedeva nei suoi poteri di evocazione, un potere che il talento da solo non poteva raggiungere” (Alice Rahon)

Libri per capire

Questo libro è stato scritto nel 2002 ed è uscito in Italia nel 2012, ma sembra scritto in questo periodo. Non per niente è stato oggetto di polemiche, in quanto alla scrittrice, essendo palestinese, non è stato consegnato un premio letterario assegnatole da una giuria di Francoforte.

Un dettaglio minore è un breve romanzo che, con una scrittura essenziale e inquietante, ci presenta due eventi distanti nel tempo e in qualche modo connessi.

Una prima parte narra un fatto molto grave del 1949, durante la Nakba, l’esodo e l’espulsione di 700.000 palestinesi, tolti dalle loro case e dalle loro terre.

Alcuni soldati israeliani attaccano dei beduini indifesi nel deserto del Negev, mentre stanno abbeverando i loro dromedari. Catturano una giovane ragazza piangente e terrorizzata.

Questa viene trattata come una bestia, denudata e lavata davanti a tutti, violentata prima dal capitano e poi da altri soldati, infine uccisa e seppellita nella sabbia. Un episodio atroce, cui fa da sfondo il latrato di un cane, che sembra l’unico essere a provare compassione per la ragazza e quasi a volerla difendere.

Questa parte, scritta in terza persona, descrive dettagliatamente la figura del capitano, con le sue operazioni accurate e sistematiche, quasi patologiche.

“Si diresse verso il suo alloggio, si fermò al centro della stanza per alcuni istanti, poi tornò verso la porta e la spalancò per attenuare un po’ l’oscurità. Staccò l’asciugamano ormai completamente asciutto dalla parete dove era appeso, lo bagnò versandovi sopra l’acqua direttamente dalla tanica e si deterse il sudore e la sabbia dal volto e dalle mani.”

Tutto è incredibilmente pacato, quasi asettico, mentre si compie un atto feroce. Per l’essenzialità dei tratti, il protagonista della prima parte appare freddo, enigmatico, quasi ossessivo, una specie di automa. La distanza, che la narratrice pone tra sé e il fatto narrato, non fa altro che sottolinearne l’assurda ferocia, la totale mancanza di qualsiasi seppur minima forma di empatia.

Ordini impartiti, ordini eseguiti sanciscono l’esercizio di un potere che invade uno spazio ampio, nel quale l’individuo si annulla. Una violenza “organizzata”, “la banalità del male”!

Sono i fatti stessi nella loro crudezza a creare comunque emozione.

Il ritmo scandito, l’ossessiva ripetizione di atti e termini sono come un martellamento, una specie di tam-tam da sfondo sonoro.

Molti anni dopo una donna di Ramallah cerca tracce di questo episodio, che l’ha particolarmente colpita. I fatti avvenuti nel 1949 sono resi noti nel 2003 dal quotidiano israeliano Haaretz attraverso un articolo accessibile online.

Il racconto diventa in prima persona. La donna, nata 25 anni prima, il giorno della tragedia, avverte una sorta di richiamo che le chiede di scavare nel passato, per dare evidenza a una storia, che in qualche modo è anche la sua. Vuole ridare voce a una creatura “disumanizzata”, quasi semplice “danno collaterale”.

Fa un viaggio alla ricerca della verità, in un clima ansiogeno e claustrofobico. La paura è il sentimento che pervade tutta la seconda parte. La paura, Adania Shibli la tratteggia perfettamente, la fa sentire, la fa provare, perché la conosce e quando si conosce bene una sensazione è facile riuscire a trasferirla agli altri, come lei fa con le parole. Una vita fatta di vincoli e divieti!

C’è qualcosa di kafkiano nella burocrazia tra cui deve disbrigarsi per poter passare da una zona all’altra o per noleggiare un’auto.

“Il tragitto più lungo che posso compiere con la mia carta d’identità verde, che attesta la mia appartenenza alla zona A, è da casa mia al mio nuovo lavoro. Dal punto di vista legale, però, ogni abitante della zona A può recarsi nella zona B a meno che non ci siano circostanze politiche o militari a impedirlo. In realtà, oggi queste circostanze eccezionali sono talmente tante che sono diventate la norma”

Non riesce a riconoscere la sua terra, non ha più punti di riferimento.

La mappa che ha a disposizione non fa che evidenziare la profonda trasformazione del territorio, divenuto irriconoscibile. Il paesaggio è deserto, poche le presenze con cui avere un contatto.

“Ho paura di perdermi dentro questo paesaggio che mi provoca una forte nostalgia dopo una così lunga assenza, con tutti i cambiamenti che ha subito e l’ennesima conferma che di palestinese non è rimasto niente, né i nomi delle città e dei villaggi sui cartelli stradali, né i cartelloni pubblicitari i cui slogan sono tutti scritti in ebraico, neppure gli edifici di nuova costruzione, o perfino i vasti campi che si estendono fino all’orizzonte alla mia destra e a sinistra.”

La giovane palestinese ha le sue ossessioni. Piena di angoscia suda e si agita ogni volta che deve affrontare un militare israeliano. Non vuole fermarsi, pur conoscendo il rischio che corre.

C’è un cane in entrambe le narrative. Abbaia di continuo nella prima, quasi a voler difendere la ragazza presa prigioniera e, quando sentiamo il latrato di un cane nella seconda, ci sembra quasi che debba essere il fantasma dell’altro, riapparso per ricordare un’ennesima morte che è stata un altro dettaglio minore. Quando la protagonista si ferma per fare benzina, l’odore che punge le sue narici richiama quello, soffocante, che aleggiava intorno alla beduina, dopo che le avevano cosparso la testa di benzina prima di tagliarle i capelli, per eliminare i pidocchi. Era stato per la giovane beduina tutto un seguito di piccole violenze, tutti dettagli minori, prima di arrivare alla fine.

Le due ragazze poi sembrano anche loro dettagli minori, presenze da annientare senza pietà, perché considerate senza alcun valore.

Si tratta di un racconto molto visivo, perché sono fortemente caratterizzati i particolari e abbiamo immagini della vita in Cisgiordania, con il lancio frequente di missili, la convivenza con una “guerra” costante, i paesaggi della Palestina, i silenzi, le colline sabbiose, i muri, villaggi senza animazione, cieli azzurri, tutto interrotto da numerosi e inquietanti check point.

La sua è una scrittura “militante”, nel senso che conta la storia, la veridicità dei fatti, la testimonianza, cui cerca di far corrispondere una modalità di scrittura asciutta, semplificata al massimo.

La narrazione mi ha coinvolto e la trovo particolarmente efficace.

Adania Shibli è nata nel 1974 in Palestina. È autrice di romanzi, racconti, opere teatrali, saggi. Nel 2001 e 2003 le è stato conferito il premio Qattan Young Writer’s Award-Palestine. Il suo romanzo Masa−S (2002), è stato tradotto in italiano con il titolo Sensi (2007), seguito dalla raccolta di racconti brevi Pallidi segni di quiete (2014). Il suo romanzo qui tradotto, Tafsı−l tha−nawı − (2002), è stato finalista al National Book Award 2020 e all’International Booker Prize 2021. Adania Shibli è anche impegnata nella ricerca accademica e nell’insegnamento.

Voci dell’ “altro”

Mahmoud Darwish (1941-2008), scrittore palestinese considerato tra i maggiori poeti del mondo arabo, ha raccontato l’orrore della guerra, dell’oppressione, dell’esilio (al-Birwa, suo villaggio natale, è stato distrutto dalle truppe israeliane durante la guerra arabo-israeliana del 1948 e ora non esiste più, né fisicamente né sulle cartine geografiche). Fuggito in Libano con la famiglia, torna in patria (divenuta terra dello Stato d’Israele) da clandestino, non potendo fare altrimenti. La sua condizione di “alieno” e di “ospite illegale” nel suo stesso paese rappresenterà uno dei capisaldi della sua produzione artistica. Ha vinto numerosi premi per le sue composizioni poetiche e collaborato con varie riviste.

La sua è stata una vita da apolide: Unione Sovietica, Egitto, Libano, Giordania, Cipro, Francia sono le principali nazioni dove il poeta ha vissuto e lavorato, per concludere la sua vita negli Stati Uniti.

Credeva che una pace fosse possibile e nel 2007, tornato a Ramallah e avendo fatto sosta a Haifa, per un evento festivo in suo onore, di fronte a una folla di circa 2000 persone accorse all’evento, ha criticato la presa di potere di Hamas nella striscia di Gaza: “Ci siamo svegliati dal coma per vedere una bandiera monocolore (di Hamas) eliminare la bandiera a quattro colori (della Palestina).” 

La poesia che segue è, secondo me, particolarmente significativa:

Pensa agli altri

“Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.

Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.

Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.

Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.

Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e di’: magari fossi una candela in mezzo al buio”.

Arte al femminile (564)

Tornando al SURREALISMO, con la sua capacità di sogno e trasfigurazione della realtà…

Eileen Agar nasce a Buenos Aires (Argentina) nel 1899, da padre industriale scozzese e madre americana, ricca ereditiera.

La sua infanzia la descrive “piena di palloncini, cerchi e cani San Bernardo”.

Nel 1911 la famiglia si trasferisce a Londra.

Frequenta la Heathfield School, dove un’insegnante la incoraggia a coltivare le sue doti artistiche.

Durante la prima guerra mondiale viene mandata a Tudor Hall (collegio privato di Salisbury), poi nel Kent, per tutelarla.

Nel 1919 s’ iscrive alla Byam Shaw School of Art.

Dal 1924 segue corsi di perfezionamento privati.

Nel 1925 sposa, un po’ per sfuggire al controllo familiare, un compagno di corso, Robin Bartlett, con cui viaggia in Spagna e Francia.

Nel 1926 conosce lo scrittore ungherese Joseph Bard, che sposerà poi nel 1940 e con cui trascorrerà il resto della vita.

Nel 1928 è a Parigi, dove entra in contatto con il movimento surrealista e fa amicizia con André Breton e Paul Eluard, padri del movimento.

Entra nel Gruppo surrealista britannico, tanto da contribuire a organizzare con Emmy Bridgwater L’esposizione surrealista internazionale di Londra del 1936.

Nel 1937 è ospite di Picasso e Dora Maar a Muogins, nelle Alpi Marittime, insieme ad altri artisti, in un’esperienza molto arricchente artisticamente.

Espone ad Amsterdam, New York, Parigi e Tokyo, poi si blocca in seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Dal 1946 al 1985 ha un periodo di fervente attività e ritrovato entusiasmo, con parecchie esposizioni personali.

Aderisce allo stile chiamato TACHISME, di arte astratta, iniziato in Francia negli anni’40/’50, definito anche arte informale. Questa forma artistica nasce come ribellione verso i regimi nazionalisti, che hanno portato alla guerra, con le loro rappresentazioni ben definite. Si vogliono collegare forme, colori, segni in forme complesse, distribuendo il colore a macchie, seguendo suggestioni irrazionali.

Nel 1990 viene nominata Royal Academician.

Muore a Londra nel 1991.

Oltre che pittrice, Eileen è stata fotografa e scultrice. Particolare l’utilizzo di oggetti trovati casualmente: conchiglie, ossa, detriti marini, tessuti e piume. Viene ricordata anche per esperimenti nel campo del design e della moda. Viene considerata una delle artiste più dinamiche, audaci e prolifiche della sua generazione.

Sue opere si trovano in varie collezioni private e nella Tate Gallery di Londra.

Arte al femminile (563)

In questo periodo non riesco a dimenticare la tragedia palestinese, le immagini di devastazione e morte. Il rispetto e una maggiore conoscenza reciproca favorirebbero migliori relazioni tra gli umani. La cultura e l’arte dovrebbero aiutare in questo.

Emily Jacir è un’artista palestinese, nata a Ramallah nel 1970 (secondo altri a Betlemme nel 1972), in Cisgiordania. Si sa abbastanza del suo lavoro, mentre scarsi i dati biografici.

La sua è stata ed è una vita “vagabonda”, come quella di tanti palestinesi.

Passa l’infanzia in Arabia Saudita, si stabilisce a Roma in Italia per un periodo: emigra poi negli Stati Uniti, dove studia Arte al Memphis College of Art.

Ottiene borse di studio e molti riconoscimenti per il suo lavoro, che comprende vari ambiti: film, fotografia, installazioni performance, video, interventi pubblici, scrittura e suono.

La sua idea è che l’artista debba essere un fornitore di servizi per gli altri.

Un tema fondamentale delle sue opere è la vicenda della sua gente.

Nel Museo Nazionale di Atene espone ad esempio una tenda per rifugiati a misura di famiglia, su cui sono stampati i nomi di tutti i villaggi palestinesi occupati e spopolati da Israele nel 1948. Mentre lo realizza nel suo studio di New York, incontra 140 persone che raccontano come ogni villaggio sia stato distrutto, rivivendo la vita precedente alla distruzione.

Avendo ottenuto il passaporto americano per anni può viaggiare in Israele, Cisgiordania e Gaza.

Usando la sua libertà di movimento ha fatto molte interviste ai palestinesi e cercato di aiutarli nei modi più disparati.

Dal 2004 le viene vietato di entrare a Gaza e in alcune città palestinesi in Cisgiordania.

Realizza dei video sulle difficoltà della sua gente a muoversi, sui continui checkpoint e controlli alle frontiere.

Material for a Film (2006) è forse uno dei lavori più noti di Jacir. Il progetto è basato sulla vita del traduttore e intellettuale palestinese Wael Zuaiter, assassinato a Roma – dove viveva – accusato ingiustamente di aver avuto un ruolo negli attacchi terroristici di Monaco del 1972. Dissotterrando materiale tra cui fotografie di famiglia, corrispondenza sotto forma di appunti, lettere, telegrammi, persino registrazioni audio di conversazioni telefoniche e documenti relativi alla sua morte, Emily reinventa capitoli della vita di Zuaiter in una toccante installazione audiovisiva. 

Altro lavoro importante è Ex libris (2010-2012), in cui ricorda i 30.000 libri saccheggiati dalle case, dalle chiese, dalle istituzioni palestinesi nel 1948 e attualmente nella Biblioteca Nazionale Ebraica di Gerusalemme, catalogati come “AP” (proprietà abbandonata). 

A Torino nel 2021 presenta Letter to a friend, un viaggio nel tempo e nello spazio, in cui racconta un secolo di vita di una casa e una strada di Betlemme, alternando riprese video, fotografie, suoni, materiali storici, frutto di ricerche e documentazioni di molti anni. Lo sguardo parte proprio dalla casa dell’artista, costruita dal bis bis nonno archivista e amministratore di Betlemme. Percorre il costante cambiamento dei confini, l’erosione continua del territorio, sino alla costruzione del muro nel 2004.

Attivissima nella creazione di eventi e progetti, espone nelle Americhe, in Europa e nel Medio Oriente.

Partecipa a Biennali, ottiene riconoscimenti e incarichi.

Attualmente continua la propria vita un po’ errabonda: Roma, Austria, Stati Uniti…

Arte al femminile (562)

L’arte non conosce limiti e anche tra le inospitali e affascinanti terre dell’Arcipelago Artico Canadese troviamo un’artista eccezionale. Questa donna ha superato una doppia marginalità: emergere in un contesto ancora dominato da figure maschili e farlo da una periferia del mondo, lontana dall’art system occidentale, con la sua idea di superiorità.

KENOJUAK ASHEVAK nasce in un igloo (casa di ghiaccio) in un campo inuit (Ikirasaq) nel 1927,  sulla costa meridionale dell’isola di Baffin. Il padre è un cacciatore e commerciante di pellicce, ma anche uno sciamano.

Il nome assegnatole è quello in ricordo del nonno paterno, perché in base alla tradizione della sua gente, l’amore e il rispetto, dati al nonno durante la sua vita, possono così passare alla nipote.

Kenojuak ha anche un fratello e una sorella.

Gli INUIT (=uomini) sono un popolo che vive nelle regioni costiere artiche e subartiche dell’America settentrionale. Non possiedono il concetto di possesso e proprietà privata. Sono abituati ad autogestirsi, senza una struttura politica definita.

Il padre viene assassinato nel 1933, quando lei ha 6 anni, durante la caccia, essendo entrato in conflitto con dei convertiti al cristianesimo.

Di suo padre conserva il ricordo di un uomo gentile, capace di interagire con l’ambiente in cui vive, avendo capacità quasi magiche.

Trasferitasi con la famiglia nella casa della nonna materna, impara i mestieri tradizionali, come preparare le pelli di foca e fare vestiti impermeabili cuciti con tendini di caribù.

A 19 anni vengono organizzate le sue nozze con un cacciatore locale, Johnniebo Ashevak, che inizialmente respinge, ma poi accetta, perché si dimostra gentile e la lascia libera di dedicarsi alla passione artistica.

Kenojuak è una delle prime donne inuit che inizia a disegnare. Lavora con grafite, matite colorate e pennarelli, occasionalmente usa vernici, acquarelli e acrilici.

Nel 1950, a 23 anni, le viene diagnosticata la tubercolosi e sino al 1955 rimane al Parc Savard Hospital di Quebec. Durante il recupero impara a fare bambole e lavori con le perline, destando l’interesse di un commerciante d’arte.

Nel 1959 con altri artisti di Cape Dorset fonda la West Baffin Eskimo Cooperative per aspiranti artisti inuit, che permette occasioni di formazione e lavoro, la possibilità di una vita diversa, oltre la precarietà legata alle attività di caccia nei rigidi inverni artici. La cooperativa ha infatti rapporti con gallerie, musei e professionisti interessati all’arte inuit.

L’artista e designer canadese James Archibald Houston, grazie ai suoi costanti contatti con il popolo inuit, fa conoscenza con questa artista autodidatta e si interessa al suo immaginario genuino, delicato e innovativo. Le insegna a incidere la pietra e l’arte della litografia.

Kenojuak crea così molte sculture in pietra ollare, migliaia di disegni, incisioni e stampe, che vengono fatte conoscere e ricercate da musei e collezionisti.

 

Nel 1963 diventa soggetto di un documentario, che riprende lei, la sua famiglia e la vita tradizionale sull’isola di Baffin: Eskimo Artist: Kenojuak. Con i soldi guadagnati il marito è in grado di acquistare la sua canoa e diventare un cacciatore indipendente.

Nel 1966 la coppia si trasferisce a Cape Dorset, perché i figli possano frequentare la scuola.

Nel 1972 muore il marito.

Nel 1973 Kenojuak si risposa con Etyguyakjua Pee, che muore nel 1977.

Nel 1978 diventa moglie di Joanassie Igiu.

Ha avuto 11 figli dal primo marito e ne ha adottati altri 5: purtroppo 7 sono morti in tenera età.

La sua fama pian piano si diffonde e nel 2004 crea la vetrata per la Cappella di John Bella Oakville, Ontario.

Molte le onorificenze ricevute, premi alla carriera e una laurea honoris causa.

Muore di cancro ai polmoni nel 2013.

L’artista ha uno stile particolare: dipinge figure umane, animali ed elementi naturali in modo quasi astratto, fiabesco, traendo ispirazione dalla natura selvatica del suo ambiente.

Usa linee sinuose e accostamenti fantastici.

Arte al femminile (561)

Ogni conflitto distrugge la bellezza…

Doniana Al-Imoor muore giovanissima, a 22 anni, l’8 agosto 2022, mentre sta dipingendo, perché i carri armati israeliani sparano contro il suo quartiere, a Gaza.

Quello che sta succedendo attualmente a Gaza non è una novità, perché anche nel passato ci sono stati interventi militari israeliani in questa martoriata striscia di terra.

Doniana in arabo significa “le nostre vite” e la sua era una vita piena di promesse.

Nasce a Bir al-Saba, una cittadina attualmente nel sud di Israele, da cui la sua famiglia viene espulsa nel 1948 e a cui è vietato tornare.

Nonostante i pochi mezzi a disposizione, pochi pastelli, un pennello consumato, Doniana dimostra sin da bambina grande talento artistico.

Riesce a frequentare la Facoltà di Belle Arti dell’Università Al-Aqsa di Gaza, distinguendosi per le sue capacità, ma purtroppo non riuscirà a laurearsi.

“Siate così appassionati al vostro sogno che il solo pensarci vi faccia sorridere”, così scriveva…