Arte al femminile (604)

Diverse artiste prendono parte alla lotta contro il nazifascismo, tra questi Genni, come viene chiamata questa scultrice tedesca.

Jenny Wiegmann Mucchi.

Nasce a Berlino nel 1895.

In Germania le donne vengono accolte nell’Accademia Statale di Belle Arti solo a partire dal 1919, per cui devono rivolgersi a istituti privati e soprattutto per chi, come Jenny ama la scultura, è sempre difficoltoso trovare il materiale e gli spazi adatti.

Si forma tra Monaco e Berlino, frequentando istituzioni private.

In seguito studia presso l’Istituto Levin-Funke, scuola di pittura e scultura aperta a entrambi i sessi, dove si cominciano ad ammettere anche le donne agli studi di nudo. Dal 1919 al 1923 segue un corso di intaglio del legno.

Il suo stile presenta inizialmente un incrocio tra forma classica e primitivismo, ossia tendenza a strutture più stilizzate e moderne. Partecipa a diverse mostre.

Siamo in un periodo di guerra e fermento politico, per cui Jenny affianca il lavoro artistico all’impegno politico.

Nel 1918 partecipa ai moti rivoluzionari che portano alla nascita della Repubblica di Weimar, che introduce il suffragio universale tramite la Costituzione e sembra aprire a un rinnovamento sociale, presto bloccato da pressioni economiche e politiche.

Nel 1920 sposa lo scultore e compagno di studi, Berthold Müller. I due si convertono al cattolicesimo e fanno un viaggio in Italia. Nel soggiorno di Roma la scultrice ottiene alcune commissioni dal Vaticano. A Ravenna rimane profondamente colpita dallo splendore dei mosaici.

Quando gli eventi precipitano, con Hitler al potere, Jenny si trasferisce a Parigi, dove frequenta il gruppo degli artisti italiani.

Nel 1937 ottiene una medaglia d’oro al Salone Mondiale di Parigi, dove Picasso presenta Guernica.

Nel frattempo si separa dal marito.

Nel 1925 ha conosciuto Gabriele Mucchi, architetto e pittore, con cui condivide esperienze artistiche e politiche.

Nel 1933 i due si sposano e si trasferiscono a Milano, dove hanno la possibilità di allargare la conoscenza di intellettuali e artisti. Espongono entrambi alla V Triennale di Milano.

Jenny si avvicina agli ambienti di Corrente, movimento artistico vicino all’omonima rivista fondata da Ernesto Treccani. Questa rivista nasce inizialmente con il nome di Vita giovanile, con scadenza mensile, poi diventa il quindicinale Corrente di Vita giovanile, per poi cambiare definitivamente il nome in Corrente nel 1938 a Milano. Ben presto essa assume la funzione di organo milanese-fiorentino dell’opposizione di alcuni intellettuali al regime fascista, dando nome anche a un movimento artistico che non si riconosce nell’ufficialità del tempo, che combatte contro la cultura asservita alla ragion di stato. Gli artisti del gruppo si orientano verso tematiche e forme del linguaggio espressionista, guardando anche ai grandi modelli quali Van Gogh, Ensor, Picasso…

Nel 1940 la rivista è soppressa per diretto ordine di Mussolini.

Durante la seconda guerra mondiale Jenny è impegnata nella Resistenza come staffetta ed è attiva nella difesa degli ebrei. Il marito sale invece in montagna, in Val d’Ossola, per unirsi ai partigiani.

Nel secondo dopoguerra collabora con vari architetti, dando un’impronta personale. Non smette mai di coltivare la ricerca artistica insieme all’impegno politico-sociale, attiva per la pace e contro ogni forma di sopraffazione. Testimonia con l’arte la lotta della Resistenza, perché non vada dimenticata.

La sua lotta si concentra contro il nuovo nemico: la rimozione storica. La sua opera è caratterizzata dall’impegno politico, come dimostrano i titoli di alcune opere: il Ritratto di Rosa Luxemburg, terracotta del 1956, Fuoco in Algeria, Donne algerine, Anno 1965 e II grido, due sculture dedicate al dramma vietnamita. A Milano, dove insegna a una scuola d’arte la tecnica del lavoro a sbalzo su metalli, esegue oggetti preziosi.

Particolarmente espressive le cinque figure per il Monumento dei partigiani caduti, di Bologna. 

Trascorre gli ultimi anni tra Berlino e Milano, alla ricerca delle proprie radici, nella Germania dell’est.

Muore a Berlino nel 1969.

Nel 1983 suoi lavori sono esposti nella mostra “Esistere come donna” al Palazzo Reale di Milano.

Nella sua arte le donne sono spesso protagoniste, rappresentate nella lotta per sopravvivere, per fronteggiare emergenze di ogni tipo (fame, violenza, solitudine, sfruttamento).

Donna particolare, affascinante e schiva, apparentemente fragile, ma dalla volontà di ferro, viene giustamente ritenuta figura importante dell’avanguardia artistica del ‘900.

Arte al femminile (602)

Elisabeth Chaplin nasce in Francia, a Fontainebleau (nota per l’omonimo castello), nel 1890.

La sua è una famiglia di artisti, perché è nipote del pittore e incisore Charles Chaplin, mentre la mamma è la scultrice e poetessa Marguerite Bavier- Chaufour.

Con la famiglia si stabilisce in Italia, prima in Piemonte, poi in Liguria e infine a Roma dal 1906.

A quest’ultimo periodo risalgono i suoi primi dipinti. La sua è una formazione da autodidatta.

A Firenze frequenta gli studi di alcuni pittori, come Giovanni Fattori. Fa inoltre numerose copie dei quadri della Galleria degli Uffizi, per impratichirsi maggiormente nella tecnica pittorica.

Si avvicina al post-impressionismo e ai pittori nabis, come vengono chiamati i pittori dell’avanguardia postimpressionista.

Il termine nabis (dall’ebraico “profeti”) viene dato dal poeta Cazalis a un gruppo di giovani artisti, organizzatosi a Parigi nel 1888 sotto l’influsso di Paul Gauguin. Agli intenti naturalistici degli impressionisti, il gruppo contrappone una ricerca che valorizza l’aspetto decorativo, l’armonia dei colori e delle composizioni libere. I caratteri evocativi e poetici dei dipinti, che rappresentano le emozioni attraverso l’uso di colori puri e forme bidimensionali, anticipano movimenti successivi, come quello dei fauves (semplificazione delle forme- abolizione della prospettiva e del chiaroscuro- uso di colori vivaci e innaturali- uso di colori puri, spesso premuti direttamente dal tubetto- linee di contorno marcate).

Dal 1910 Elisabeth si dedica a tele di grande formato, con forme sintetiche e grande attenzione al colore.

Inizia a presentarsi alle grandi esposizioni nazionali: la Promotrice Fiorentina (1912), la Secessione Romana (1913) e la Biennale di Venezia (1914).

Nel 1916 la famiglia si stabilisce definitivamente a Roma. Il suo successo si consolida: espone alla Biennale Veneziana del 1920 e al Salon di Parigi. Riscuote successo di pubblico e di critica.

Nel 1922 lascia Roma e fino alla fine della seconda guerra mondiale vive a Parigi, dove ottiene importanti commissioni pubbliche, per grandi murali prima nella Cappella di Notre-Dame du Salut (distrutta nel 1980) e poi nella Chiesa di Saint-Esprit.

Nel 1937 ottiene una medaglia d’oro nell’Esposizione Internazionale di Parigi e nel 1938 la Legione d’Onore.

Negli anni successivi sviluppa uno stile più decorativo, con superfici ingigantite e riempite di figure, colori smaltati e massicci inserti floreali. Accanto a queste opere di grande formato continua sempre a produrre anche opere da cavalletto, spesso dedicate a soggetti tratti dalla vita quotidiana e familiare.

Nel secondo dopoguerra torna in Italia e si stabilisce definitivamente a Fiesole.

Numerose le mostre personali a Firenze, soprattutto a Palazzo Strozzi.

Muore nel 1982 a Fiesole.

Sue opere si trovano presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e la Galleria d’Arte Moderna di Firenze. I soggetti preferiti sono autoritratti, paesaggi e ambienti familiari. Dimostra affezione verso la vita domestica e coloro che la caratterizzano. I suoi quadri spesso trasmettono dolcezza e una malinconia infinita.

Elisabeth è l’artista donna con il maggior numero di opere conservate nelle collezioni fiorentine. La Galleria di Palazzo Pitti raccoglie circa 700 opere di questa straordinaria artista, molte delle quali purtroppo non visibili al pubblico.

Nel 1996 esce un ricco volume monografico su di lei, a cura del critico d’arte Giuliano Serafini.

Nel 2021 le è stata dedicata una mostra nel Comune di Santa Maria Tiberina (Perugia).

Arte al femminile (599)

Katy Castellucci è stata figura di rilievo nel panorama artistico italiano della prima metà del Novecento.

Nasce nel 1905 a Laglio, sul lago di Como. Il padre Ezio è raffinato illustratore e pittore di tradizione accademica. La madre, Teresa Gautieri, ha nobili origini provenzali.

La famiglia si trasferisce a Roma, che offre maggiori possibilità di lavoro per il padre e qui Katy frequenta il Liceo Artistico.

Fin da giovanissima dimostra talento artistico e predisposizione per la danza.

Nel 1926 si reca a Parigi con la sorella Guenda e vi rimane due anni. Nel 1927 prende parte alla Pantomima futurista di Enrico Prampolini al Théatre de la Madeleine.

Tornata a Roma, frequenta gli artisti della Scuola Romana e ha una relazione tormentata con uno degli esponenti, Alberto Ziveri. Questa Scuola vuole essere un’alternativa alle espressioni artistiche di chiara propaganda fascista. Ricerca, nel legame profondo con la città di Roma e l’antichità, una dimensione più intima e personale, con forte attenzione alle ricerche cromatiche, alle tonalità del colore.

Nel 1932 espone per la prima volta alla III Sindacale, ma la mostra veramente importante è la prima personale alla Galleria della Cometa (aperta dalla contessa Mimì Pecci Blunt) nel 1936, assieme ad Adriana Pincherle (v.n.446), sorella dello scrittore Alberto Moravia e sua amica di gioventù.

Viene notata dalla critica per l’intensità e la poesia della sua pittura.

Negli anni del secondo dopoguerra si dedica intensamente all’insegnamento, prima a Modena poi all’Istituto di Arte Applicata di Roma, dove fonda la sezione di disegno su tessuto, dalla tecnica batik alla serigrafia. Si dedica anche alla scenografia e ai costumi teatrali. Lavora per il Maggio Musicale Fiorentino e per il Teatro delle Arti di Roma.

Si presenta assieme al padre alla VI Quadriennale di Roma del 1951 e nello stesso anno fa una mostra personale alla Galleria Lo Zodiaco. I suoi quadri in questo periodo hanno un’impronta neocubista, collegandosi alle tendenze artistiche europee.

Rinuncia poi a partecipare alle mostre cui è invitata, dedicandosi a una pittura astratta sperimentale, senza intenti espositivi. 

Molti i disegni che continua a fare, autonomi dalla pittura, tutti di grande qualità e in cui evidenzia la vocazione figurativa.

Muore a Roma nel 1985.

Nel 2021 le è stata dedicata una mostra a Villa Torlonia (Casino dei Principi), a Roma, con opere raccolte e catalogate dal nipote Alessandro Pagliero, figlio della sorella Guenda: autoritratti di straordinaria modernità, ritratti di amici, di parenti, di intellettuali, animali e nudi molto sensuali. Una serie di vedute di Roma ad acquarello e china mostra il talento nel disegno, nella capacità di riprodurre volumi con pochissimi tratti. Gli autoritratti sono vari e sintetizzano gli aspetti del carattere dell’artista, dalla malinconia alla volontà di nascondersi dietro travestimenti e trucchi, la sua inquietudine. Le immagini familiari sono invece cariche di dolcezza. Le sue pennellate sono dense, accentuati i rapporti tra luci e ombre, incisivo il collegamento tra figure e ambiente.

Quando affronta la fase neocubista procede in modo originale, con colori essenziali e tratti netti.

Arte al femminile (597)

Ancora pittura, ancora una pittrice italiana del ‘900…

Eva Quajotto nasce a Mantova nel 1903.

Inizia da ragazza ad appassionarsi alla pittura, frequentando lo studio di Pietro Focardi, pittore che segue la tecnica divisionistica in modo spontaneo, verista. Il Divisionismo è un fenomeno artistico italiano, nato alla fine dell’800, caratterizzato dalla separazione dei colori in singoli punti o linee, che interagiscono fra loro, garantendo grande luminosità. Il Verismo invece si concentra sullo studio della realtà e l’osservazione del vero, scegliendo colori conformi alla natura. I soggetti sono tratti dalla vita quotidiana. (v. il seguente quadro del pittore)

Queste tecniche saranno riviste da Eva in modo personale.

Nel 1928 si trasferisce a Roma, entrando in contatto con la Società degli Amatori e Cultori. Nella capitale insegna Disegno e Storia dell’Arte, impostando la propria attività di pittrice professionista.

Diventa amica e ritrattista di letterati e artisti, quali Marinetti, Aleramo, Alvaro, Deledda, Palazzeschi e Moravia.

Partecipa giovanissima alla Biennale di Venezia.

Nel 1930 fa uno mostra personale a Roma, esponendo 45 dipinti.

Durante gli anni Trenta partecipa alle maggiori rassegne nazionali, alle Biennali e Quadriennali.

Cerca di farsi conoscere anche all’estero, a New York, Baltimora, Syracuse, ottenendo apprezzamenti da parte della critica.

Nel 1948, su incarico del Ministero della Cultura, fa un viaggio di studio in Germania, Belgio, Olanda. Collabora con molte riviste e periodici: La Stirpe, La fiera letteraria, Noi donne.

Continua a esporre e nel 1950 pubblica un romanzo di carattere autobiografico, Bestie e noi. Quest’opera manifesta il suo grande amore per gli animali.

Scrive racconti, testi storico-artistici, recensioni e fa illustrazioni per giornali romani. Si interessa di sceneggiatura.

Alcuni suoi quadri sono stati acquistati dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma.

Muore a Vallerano (Viterbo) nel 1952.

Arte al femminile (594)

Ci sono artiste la cui morte prematura ha impedito di poter vedere lo sviluppo della loro arte. L’artista fiorentina Vittoria Morelli è una di queste.

Vittoria Morelli è una pittrice italiana di cui poco si sa, ma che, nella sia pur breve vita, ha manifestato un grande talento.

Un suo quadro, Interno con figure, è conservato nella Galleria degli Uffizi ed è stato restaurato nel 2018. In esso si manifesta la sua vena narrativa e lo stile naturalistico, attento ai dettagli. Si comprende l’alta qualità della sua produzione artistica.

Vittoria nasce a Firenze nel 1892.

Attiva tra Roma e Firenze negli anni Venti e Trenta, lavora creando figurini di moda per la stilista di fama internazionale Maria Monaci Gallenga, ma soprattutto come illustratrice di libri per l’infanzia e per il Giornalino della Domenica.

A Firenze l’editoria e l’industria del libro hanno in questo periodo un peso rilevante. L’attività di illustratrice viene considerata particolarmente adatta alle donne, in quanto si può svolgere in ambito domestico.

Sappiamo della sua amicizia con la pittrice Fillide Giorgi Levasti (v.n.573), che introduce nell’ambiente romano.

Partecipa con i suoi quadri alle mostre organizzate a Roma in questi anni.

Muore a Roma nel 1931, a 39 anni.

Arte al femminile (593)

Maria Grandinetti Mancuso fa parte di quel gruppo di pittrici italiane del ‘900, che dipingono per istinto naturale quello che vedono, così come lo vedono, affidandosi unicamente alle proprie capacità espressive e al colore.

Come osservato più volte, a Roma e in genere nelle città italiane culturalmente più vivaci, la vita artistica ruota intorno ai salotti, ai circoli, più che esprimersi liberamente.

Maria nasce nel 1891 a Soveria Mannelli, un paese della Sila (provincia di Catanzaro, Calabria), in una famiglia della media borghesia: il padre Giovanni è ingegnere agrimensore, la madre Angelina Maruca casalinga.

Nel 1902 la famiglia si trasferisce a Napoli e Maria può dedicarsi agli studi artistici: studia presso l’istituto Vittoria Colonna prima ed è tra le prime donne a frequentare l’Accademia di Belle Arti a Napoli.

Nel 1911 sposa Cesare Mancuso, uomo colto e facoltoso, avvocato e magistrato nelle Forze armate nel periodo bellico, seguendolo prima a Bari, a New York e quindi stabilmente a Roma dal 1912.

La sua casa romana viene frequentata da artisti e intellettuali, come De Chirico, Balla e Ungaretti.

Nel 1914 allestisce due mostre personali a Roma, suscitando l’interesse dei rappresentanti della cosiddetta “avanguardia romana”. Partecipa poi alla III esposizione della Secessione Romana nel 1915 e alla Secessione Romana del 1916-17.

Nel 1917 nasce il figlio Mario.

Nell’ambito delle esperienze espositive romane, la pittrice si inserisce nel gruppo di artiste d’avanguardia come Pasquarosa (v.n.581) e Deiva De Angelis (v.n.582): partecipa nel 1918 alla Mostra d’Arte indipendente pro Croce Rossa presso la Galleria del giornale «Epoca ».

Con l’avvento del fascismo, cui è avversa, inizia un periodo di diminuita attività. Si avvicina alla pittura metafisica, con opere particolari come colore e soggetti.

Nel 1930 è a Parigi e incontra il pittore Maurice Utrillo e il critico Waldemar George, che scrive una monografia per lei in francese. Contestualmente si guadagna una monografia anche in tedesco (edita nel 1930 da Italo Tavolato) e in italiano, con la presentazione di Mario Recchi e Roberto Melli.
Nel 1931 viene organizzata una personale a Parigi, alla galleria Rosemberg, evento in cui si verifica un drammatico episodio: le tele della pittrice giungono deturpate da alcuni tagli, forse per «una esplicita rappresaglia di carattere politico » (Grasso 2002). Nello stesso anno pubblica una raccolta di testi critici e spunti autobiografici.

Nel 1933 allestisce una personale alla galleria Sabatello di Roma, con un successo di critica che le procura l’acquisto da parte dello Stato Italiano del Ritratto di Teresa Labriola (Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea).

Nel 1936 espone alla galleria Apollo di Roma ed è presente alle Quadriennali di Roma del 1935, 1939 e 1943. Nel 1940 due sue mostre personali sono allestite a Milano (Casa d’artisti) e Genova (Galleria Genova). Nel 1942 espone al Teatro Quirino di Roma: l’attività è intensa.

Convinta sostenitrice della pace universale attraverso le arti, dedica a questo obiettivo nel 1946 la fondazione della rivista «Arte contemporanea (Arte-scienza-pace)», attiva fino al 1968. Si avvicina nel 1951 all’associazione inglese General Welfare con cui fonda la Lega delle Arti e delle scienze, oltre ad aderire a congressi internazionali pacifisti.

Trascorre gli ultimi anni della sua esistenza afflitta da disturbi psichici (dopo la morte del marito ha una patologia depressiva), proprio quando l’attenzione della critica sembra rivolgersi nuovamente alla sua pittura.

Muore nell’Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma nel 1977.

I suoi dipinti sono conservati, per la quasi totalità, in collezioni private.

Alcuni quadri sono stati presentati presso il MAON- Museo d’arte dell’Otto e Novecento (a Rende- Cosenza), in occasione di mostre collettive, dedicate all’arte del Novecento Italiano, l’ultima delle quali si è tenuta nel 2013.

Arte al femminile (592)

Una volta l’arte univa…

Lilja Slutskaja nasce a Usun-Ada, una penisola sul lato orientale del mar Caspio, allora sotto la Russia, nel 1889.

Nel 1910 si trasferisce con la famiglia a Monaco di Baviera, dove frequenta la Scuola di Arti e Mestieri.

Allo scoppio della prima guerra mondiale si trasferisce a Zurigo, dove completa gli studi artistici e si interessa alle mostre d’arte lì presenti.

Finita la scuola si sposta a Losanna, dove trova lavoro presso un atelier artigianale russo, eseguendo intagli e dipinti su legno.

Raggiunge ad Ascona (comune svizzero del Canton Ticino, sul lago Maggiore) la sorella Xenja, sposata con il pittore americano Gordon McCouch.

Qui conosce Marianne Werefkin (v.n.298) e Alexej Jawlensky, che l’aiutano a esporre nel Padiglione russo alla Biennale di Venezia del 1920.

“Se buona parte della critica italiana mostra di disdegnare il Padiglione russo, accennandovi solo per definirlo un “gruppo raccogliticcio” o per beffeggiare la controversa mostra individuale dello scultore cubista Aleksandr Archipenko, riconosce invece a Lilja Slutskaja, che espone una serie di “Interni” e alcuni acquarelli di fiabe di Andersen, il merito di essere “una forte acquarellista, ironica e inquieta”, capace di afferrare bene gli aspetti grotteschi delle cose, e di riprodurli con abilità caricaturale” (F. Sapori, La XII Mostra d’Arte a Venezia. La pittura straniera, in “Emporium”, LII, 307-308, Luglio-Agosto 1920, pp. 128-129).

Nel 1923 è presente alla Prima Esposizione Internazionale dell’Acquarello presso la Permanente di Milano. Partecipa poi, nello stesso anno, alla Mostra Internazionale di Arti Decorative di Monza con alcuni oggetti di legno decorato: scatole, giocattoli e ninnoli vari.

Nel 1925 torna a Monza in occasione della Seconda Mostra Internazionale delle Arti Decorative, sempre con oggetti in legno scolpiti e colorati.

Nel 1933 si stabilisce a Genova, esponendo in varie occasioni pitture, disegni e acquarelli.

Nel 1938 si sposta a Milano, dove lavora come illustratrice di periodici come Il Giornalino della Domenica, La lettura, Il corriere dei piccoli, oltre a raccolte di fiabe per bambini, collaborando con alcune case editrici (Hoepli, Igis, Mondadori) con uno stile originale e inconfondibile.

Muore nel 1940 in un ospedale milanese.

Arte al femminile (591)

Elizaveta Kaehlbrandt Zanelli nasce a Riga nel 1880.

Si forma presso l’Accademia di Belle Arti di Pietroburgo e si perfeziona in seguito negli studi di artisti di Monaco e Parigi.

Nel 1904 espone per la prima volta a Riga e nel 1906 è a Vienna, dove ottiene molte commissioni per ritratti di famiglie nobili austriache. Viene invitata nel castello dei Principi Reuss di Vienna, alla Corte di Graz in Germania e nei castelli di Altenburg, Neuhoff e Jannowitz in Slesia, per interessamento della regina Eleonora di Bulgaria, nata principessa Reuss.

Durante un viaggio in Italia con la sorella Heddy, nel 1908, visita prima Venezia e poi Roma, dove conosce lo scultore bresciano Angelo Zanelli (autore del basamento dell’Altare della Patria).

I due si sposano a Riga nel 1909 e si stabiliscono poi a Roma.

Come si usava allora, nel suo salotto Elizaveta riceve sia alcuni esponenti della comunità russa stabilitasi in città, che illustri artisti italiani. Durante le “Domeniche in casa Zanelli” la socievole e raffinata Elizaveta instaura molte amicizie.

Trascorre poi le estati ad Anticoli Corrado, località allora meta di molti pittori, che nella bellezza del paesaggio e delle donne del luogo trovano ispirazione per le loro opere. In questa pittoresca località Elizaveta riprende scene di vita contadina e scorci del paesaggio ciociaro, che appaiono nei quadri che espone nel 1920 nel Padiglione Russo della XII Biennale di Venezia. Alcuni suoi quadri li dona al comune del paese, dove nel 2004 si è tenuta la mostra “Pittrici nella Valle dell’Aniene”.

Dopo diverse esposizioni in ambito romano, nel maggio 1928 è a Milano, presso la Galleria Micheli. Qui espone sia scene campestri che paesaggi marini, ispirati all’Isola d’Elba, dove ogni tanto ama soggiornare.  

Elizaveta dipinge in modo continuativo ed è presente in mostre sia personali che collettive (Mostra degli Amatori e Cultori d’Arte, a Roma- Biennale di Venezia- Biennali Romane- Mostra d’arte Marinara a Roma).

Ad intervalli regolari soggiorna con il marito anche presso il lago di Garda, che ama molto e riproduce nei quadri.

Dopo la morte del marito nel 1942, si ferma sino al 1951 presso il lago di Garda, torna poi a Roma e ad Anticoli, profondamente scossa da questa perdita. Nel 1958 lei e la figlia Magda si trasferiscono a Bergamo. Qui conduce una vita molto appartata, ma continua a dipingere ed esporre sino alla morte nel 1970.

A Brescia, città di nascita del marito, si trasferisce la figlia Magda e vengono organizzata diverse mostre dedicate a questa artista lettone. L’ultima è stata allestita nel 2009.

Arte al femminile (587)

Carla Accardi ha saputo uscire dagli stereotipi del suo tempo, per un’arte innovativa, ricca di colore e da decifrare di volta in volta.

Nasce a Trapani nel 1924 in una famiglia benestante, in cui vi sono modelli femminili forti, con una cugina scrittrice e un’altra politica.

Consegue la maturità classica a Trapani e in seguito s’iscrive all’Accademia di Belle Arti di Palermo, dove si diploma nel 1947.

Nello stesso anno si trasferisce a Roma, dove frequenta un locale, l’Osteria Fratelli Manghi, che le permette di conoscere esponenti della cultura romana: artisti, scrittori, poeti e registi.

Interessata al movimento dell’astrattismo, dà vita al gruppo Forma 1, un collettivo di artisti uniti dalla convinzione che l’arte debba essere priva di significati simbolici o psicologici, per cui il segno, la forma contano per se stessi, comunque in grado di destare emozioni.

In seguito procede da sola nella personale ricerca artistica, una delle prime donne italiane a dedicarsi all’astrattismo. La sua arte si basa su due cardini: da una parte l’astrattismo inteso come riduzione all’essenziale di forme e segni, dall’altro il desiderio di dare messaggi forti, a favore delle proprie idee. L’astrattismo nasce dalla scelta degli artisti di negare la rappresentazione della realtà, per esaltare i propri sentimenti attraverso forme, linee e colori.

Utilizza la classica tela, dipinta con materiali inusuali (come la caseina), creando a volte installazioni, che proseguono ed espandono la tela nello spazio.

Nel 1950 fa la prima mostra personale. Si sposta poi a Milano, dove entra in contatto con gli esponenti del gruppo MAC (Movimento Arte Concreta), che sperimentano un astrattismo geometrico, distaccato da qualsiasi interpretazione simbolica delle forme. Carla collabora con il gruppo sino allo scioglimento dello stesso nel 1958.

Il critico d’arte francese, Michel Tapié, grande promotore dell’arte informale, la invita a numerose mostre in Italia e all’estero, rendendola la prima pittrice astrattista italiana a essere conosciuta e famosa a livello internazionale.

Tra gli anni Sessanta e Settanta l’artista tende a “uscire” sempre più dalla tela, con installazioni particolari. Utilizza materiali plastici, come i sicofoil, un tipo di acetato di cellulosa trasparente, dipinto con vernici e smalti. Questi vengono stesi o arrotolati o usati come tende o “tappeti” percorribili.

Negli anni Ottanta invece produce tele grezze di grandi dimensioni, su cui dominano segni in numerose varianti e diversi colori.

Negli anni Novanta torna alla tela classica.

Contemporaneamente al lavoro artistico, la pittrice fa parte dei movimenti femministi italiani, dando vita, insieme a Elvira Banotti e a Carla Lonzi, al gruppo Rivolta femminile.

In tarda età riceve importanti riconoscimenti: nel 1996 fa parte dell’Accademia di Brera e nel 1997 entra nella Commissione della Biennale di Venezia.

Muore nel 2014, a 90 anni.

Le sue opere si possono vedere in diversi musei dedicati all’arte contemporanea, sia in Italia che all’estero. Un gruppo nutrito di opere si trova presso il Museo di Arte Contemporanea di Roma. Nel Castello di Rivoli in Piemonte ci sono tre suoi lavori, altri sono nel Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento, nelle Gallerie Civiche di Modena e Bologna, nel Palazzo Reale e nella Fondazione Prada di Milano.

All’estero ci sono suoi lavori al Guggenheim Museum di New York e allo S.M.A.K. di Ghent in Belgio.

Il suo obiettivo è “Prima commuovere e poi far capire”.“Tutte le cose che ho fatto – afferma – le ho volute. In fondo il lavoro si fa per sé, non si fa per gli altri, perché se lo fai per gli altri segui sempre delle cose che non sono pure, che sono delle imposizioni, delle influenze, invece seguire il proprio sogno è diverso, perché fai una cosa e la prima volta che la fai ti sembra strana, dopo ti ci immergi e ne ricavi un significato”.

Arte al femminile (584)

In Italia giungono, nei primi decenni del Novecento, artisti da vari stati europei, portando novità ed entusiasmo.

Edita Broglio (Edita Walterowna von Zur Muehlen) nasce a Smiltene, villaggio a nord-est di Riga (Lettonia), nel 1886.

Proviene da una nobile famiglia: il padre Walter, proprietario terriero, discende dai Cavalieri dell’Ordine Teutonico, mentre la madre Blanchine Sivers appartiene a una famiglia di commercianti francesi stabilitisi a Riga.

Dopo la morte della madre si trasferisce a Tartu, dallo zio paterno, il barone Raimund von Zur-Muehlen, che l’avvicina all’arte e al disegno.

Lascia il suo paese dopo la Domenica di Sangue del 1905, eccidio compiuto a San Pietroburgo da reparti dell’esercito e della guardia imperiale russa contro i pacifici manifestanti diretti al Palazzo d’Inverno, per presentare una supplica allo zar Nicola II. Essendo la Lettonia sotto l’impero russo, è diventato pericoloso il clima sociale di questo periodo, soprattutto per i sostenitori dello zar, come i suoi familiari.

Dal 1908 al 1910 studia all’Accademia di Belle Arti di Konigsberg nella Prussia orientale, dove si è trasferita con il padre.

Si reca a Parigi, frequentando numerosi ateliers, con l’intenzione di abitare in una delle capitali artistiche europee.

Nel 1911 arriva in Italia e, dopo un breve soggiorno a Firenze, si stabilisce a Roma.

Affitta un piccolo studio e inizia un periodo che definisce incandescente e visionario. Nel 1913 espone sue opere nella prima Esposizione Internazionale d’Arte della Secessione.

Nel 1914 torna nella città natale, per la morte dello zio, poi decide di ripartire per l’Italia, per rimanervi per sempre.

Allo scoppio della prima guerra mondiale iniziano difficoltà economiche, per cui si trasferisce per tutti gli anni di guerra ad Anticoli Corrado, il “paese degli artisti”, sopra la valle dell’Aniene. Dipinge una serie di opere ispirate al paesaggio brullo del luogo.

Tornata a Roma, nel 1917 conosce Mario Broglio, scrittore, pittore, scultore ed editore.

I due condividono l’impegno e la passione per l’arte. Fondano il movimento Ritorno all’ordine, collegato alla rivista di critica d’arte Valori plastici, pubblicata in italiano e in francese, che difende i valori formali dell’arte italiana del Tre-Quattrocento. Questa pubblicazione organizza attività espositive in Germania e in Italia, elabora un vasto programma di ridefinizione dei valori del passato. Aderiscono tra gli altri De Chirico, Carrà e Morandi, difendendo anche l’aspetto metafisico in pittura.

Dall’inizio del secolo le avanguardie avevano rappresentato un momento esplosivo nell’arte europea. L’orrore della guerra segna enormemente anche gli artisti, che si appellano a un ritorno all’ordine, inteso come ricerca nella pittura di un momento di razionalità individuale, come nell’arte del primo Rinascimento.

Edita e il compagno curano poi la stampa di opere fondamentali su Piero della Francesca e Giotto.

I due si sposano nel 1927.

Negli anni Trenta Edita espone i primi quadri, ma solo dopo la seconda guerra mondiale ha occasioni regolari per presentare la sua opera.

Oltre che pittrice, Edita è anche eccellente cantante e ha una dote innata per la recitazione.

“Edita era una donna strana ed enigmatica. Ricordo che una notte, io con Broglio ed alcuni nostri amici eravamo andati a passeggiare dalle parti di Valle Giulia. Era tardi forse mezzanotte. Broglio ci aveva detto che aveva lasciato Edita a casa. Ad un certo momento abbiamo sentito un canto misterioso che veniva da un albero vicino a noi, ci approssimammo e vedemmo Edita a cavallo su un grosso ramo che cantava una aria strana con gli occhi che guardavano le stelle. Ora io mi domando come si può stare a casa e allo stesso tempo su un albero che distava parecchi chilometri dalla casa di Edita “(Giorgio de Chirico, 1973).

Nel 1948, rimasta vedova, si ritira a San Michele Moriano (Lucca), in Toscana, dove ha una fattoria di cui si occupa, conducendo vita ritirata. Trascorre un periodo di fervida attività, dipingendo nature morte, sperimentando l’immaginario simbolista e facendo ricerche sull’astrattismo.

Rimane in contatto con gli amici e colleghi di Roma, interessandosi al destino della rivista da lei creata.

Nel 1955 torna a Roma, dove è presente nel 1959 alla Quadriennale romana.

A partire dal 1974 mette in ordine gli archivi di Valori plastici.

Muore a Roma nel 1977.

Tutti i suoi quadri e disegni sono venduti all’asta e l’incasso destinato alla Fondazione Brera di Milano.

Viene considerata importante esponente del cosiddetto realismo magico: le opere sono concrete nei soggetti, ma nello stesso tempo trasognate, quasi irreali, rivelando l’emotività del pittore. Si confondono i confini tra realtà e fantasia.