Arte al femminile (603)

Ci sono artiste che hanno cercato faticosamente un proprio stile e hanno rifiutato modelli predefiniti.

Romaine Brooks (Beatrice Romaine Goddard) nasce a Roma nel 1874 da una ricca famiglia americana, momentaneamente in città, da cui il nome datole. Il padre, Henry Goddard, è un predicatore famoso, la madre, Ella Watermann, donna bellissima, appartiene a una dinastia di ricchi affaristi.

Romaine ha un’infanzia travagliata, per la separazione dei genitori, a causa dell’abbandono da parte del padre alcolizzato,  e vive con la madre in Europa e negli Stati Uniti, insieme ai fratelli Henry e Maya. Henry ha problemi psichiatrici, per cui necessita di continue attenzioni. La madre, stravagante e dispotica, le impedisce di dedicarsi al disegno sua passione. Sino alla maturità Romaine deve sopportare il dispotismo materno, tra collegi, incomprensioni e scenate.

Dopo aver raggiunto l’età adulta fugge e passa la maggior parte della propria vita a Parigi, alternandola con alcuni soggiorni in Italia, a Capri e a Roma, dove s’iscrive alla Scuola Nazionale d’Arte. Nel 1897 partorisce una bambina, che abbandona. In seguito subisce molestie sessuali, cui si ribella e da cui fugge.

Nel 1901, morti la madre e i fratelli, si trova erede di una cospicua fortuna.

Nel 1903 sposa il pianista John Ellington Brooks, da cui si separa un anno dopo, mantenendo apparentemente la condizione, ufficialmente rispettabile, di donna sposata, con un accordo stipulato con il marito, cui corrisponde una rendita mensile per questo. Lui è dichiaratamente omosessuale, mentre lei scopre la propria bisessualità.

Una volta lasciato il marito ha varie relazioni amorose, tra cui una con lo scrittore Gabriele D’Annunzio. Quest’ultimo la soprannomina “cinerina”, per il prevalere dei toni grigi nella sua tavolozza cromatica. I due ritratti che Romaine fa a D’Annunzio (uno dei quali conservato al Vittoriale) sono tra i più famosi fatti a questo scrittore.

Con Ida Rubinstein, stella dei balletti russi di Serge Diaghilev  e Gabriele D’Annunzio intreccia un complicato triangolo amoroso.

All’inizio della sua carriera adotta una tavolozza dai colori tenui, principalmente nero, bianco, sfumature di grigio, a volte con riflessi ocra, marrone o rosso.

La sua prima mostra, presso la prestigiosa Galleria Durand-Ruel di Parigi, ottiene notevole interesse.

Lavorando a Parigi in un momento in cui Pablo Picasso e altri artisti sfidano gli approcci tradizionali all’arte, lei rimane indipendente e ricerca un proprio linguaggio.

Il rapporto più duraturo e più stabile l’ha con la scrittrice Natalie Clifford Barney, incontrata nel 1915 a Parigi. Nonostante i vari innamoramenti, Romaine rimane profondamente gelosa della propria solitudine.

Durante la prima guerra mondiale si attiva per raccogliere fondi per la Croce Rossa e altre organizzazioni coinvolte nello sforzo bellico. Ottiene per questo la Legione d’Onore.

Negli anni ’30 inizia a scrivere un manoscritto autobiografico, intitolato No Pleasant Memories, con illustrazioni fantasiose. Non lo pubblicherà mai.

Nel 1937 si trasferisce nella Villa Sant’Agnese, vicino a Firenze, dove viene raggiunta dalla Barney, in fuga dalla Francia invasa dai. Tedeschi.

In seguito le due si separano e Romaine rimane in Italia. Il rapporto rimane sino alla fine di Romaine.

Muore a Nizza (Francia) nel 1970.

Romaine è una figura di spicco di una controcultura artistica di europei dell’alta borghesia ed espatriati americani, svincolati dai canoni ufficiali. Nei suoi dipinti rappresenta donne di aspetto androgino, sfidando le idee convenzionali su come le donne devono apparire e comportarsi in quel periodo. Utilizza il ritratto e l’autoritratto per esprimere la propria indipendenza e il rifiuto a conformarsi alle aspettative sociali.

Nel 2016 le è stata dedicata una mostra presso Il Museo d’arte Americano Smithsonian. Nello stesso anno vi è la prima mostra in assoluto dedicata a lei in Italia, presso Palazzo Fortuny a Venezia.

I disegni, che farà soprattutto nell’ultima parte della vita, restano lo specchio più profondo della sua anima fondamentalmente tragica e solitaria.

Arte al femminile (602)

Elisabeth Chaplin nasce in Francia, a Fontainebleau (nota per l’omonimo castello), nel 1890.

La sua è una famiglia di artisti, perché è nipote del pittore e incisore Charles Chaplin, mentre la mamma è la scultrice e poetessa Marguerite Bavier- Chaufour.

Con la famiglia si stabilisce in Italia, prima in Piemonte, poi in Liguria e infine a Roma dal 1906.

A quest’ultimo periodo risalgono i suoi primi dipinti. La sua è una formazione da autodidatta.

A Firenze frequenta gli studi di alcuni pittori, come Giovanni Fattori. Fa inoltre numerose copie dei quadri della Galleria degli Uffizi, per impratichirsi maggiormente nella tecnica pittorica.

Si avvicina al post-impressionismo e ai pittori nabis, come vengono chiamati i pittori dell’avanguardia postimpressionista.

Il termine nabis (dall’ebraico “profeti”) viene dato dal poeta Cazalis a un gruppo di giovani artisti, organizzatosi a Parigi nel 1888 sotto l’influsso di Paul Gauguin. Agli intenti naturalistici degli impressionisti, il gruppo contrappone una ricerca che valorizza l’aspetto decorativo, l’armonia dei colori e delle composizioni libere. I caratteri evocativi e poetici dei dipinti, che rappresentano le emozioni attraverso l’uso di colori puri e forme bidimensionali, anticipano movimenti successivi, come quello dei fauves (semplificazione delle forme- abolizione della prospettiva e del chiaroscuro- uso di colori vivaci e innaturali- uso di colori puri, spesso premuti direttamente dal tubetto- linee di contorno marcate).

Dal 1910 Elisabeth si dedica a tele di grande formato, con forme sintetiche e grande attenzione al colore.

Inizia a presentarsi alle grandi esposizioni nazionali: la Promotrice Fiorentina (1912), la Secessione Romana (1913) e la Biennale di Venezia (1914).

Nel 1916 la famiglia si stabilisce definitivamente a Roma. Il suo successo si consolida: espone alla Biennale Veneziana del 1920 e al Salon di Parigi. Riscuote successo di pubblico e di critica.

Nel 1922 lascia Roma e fino alla fine della seconda guerra mondiale vive a Parigi, dove ottiene importanti commissioni pubbliche, per grandi murali prima nella Cappella di Notre-Dame du Salut (distrutta nel 1980) e poi nella Chiesa di Saint-Esprit.

Nel 1937 ottiene una medaglia d’oro nell’Esposizione Internazionale di Parigi e nel 1938 la Legione d’Onore.

Negli anni successivi sviluppa uno stile più decorativo, con superfici ingigantite e riempite di figure, colori smaltati e massicci inserti floreali. Accanto a queste opere di grande formato continua sempre a produrre anche opere da cavalletto, spesso dedicate a soggetti tratti dalla vita quotidiana e familiare.

Nel secondo dopoguerra torna in Italia e si stabilisce definitivamente a Fiesole.

Numerose le mostre personali a Firenze, soprattutto a Palazzo Strozzi.

Muore nel 1982 a Fiesole.

Sue opere si trovano presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e la Galleria d’Arte Moderna di Firenze. I soggetti preferiti sono autoritratti, paesaggi e ambienti familiari. Dimostra affezione verso la vita domestica e coloro che la caratterizzano. I suoi quadri spesso trasmettono dolcezza e una malinconia infinita.

Elisabeth è l’artista donna con il maggior numero di opere conservate nelle collezioni fiorentine. La Galleria di Palazzo Pitti raccoglie circa 700 opere di questa straordinaria artista, molte delle quali purtroppo non visibili al pubblico.

Nel 1996 esce un ricco volume monografico su di lei, a cura del critico d’arte Giuliano Serafini.

Nel 2021 le è stata dedicata una mostra nel Comune di Santa Maria Tiberina (Perugia).

Arte al femminile (599)

Katy Castellucci è stata figura di rilievo nel panorama artistico italiano della prima metà del Novecento.

Nasce nel 1905 a Laglio, sul lago di Como. Il padre Ezio è raffinato illustratore e pittore di tradizione accademica. La madre, Teresa Gautieri, ha nobili origini provenzali.

La famiglia si trasferisce a Roma, che offre maggiori possibilità di lavoro per il padre e qui Katy frequenta il Liceo Artistico.

Fin da giovanissima dimostra talento artistico e predisposizione per la danza.

Nel 1926 si reca a Parigi con la sorella Guenda e vi rimane due anni. Nel 1927 prende parte alla Pantomima futurista di Enrico Prampolini al Théatre de la Madeleine.

Tornata a Roma, frequenta gli artisti della Scuola Romana e ha una relazione tormentata con uno degli esponenti, Alberto Ziveri. Questa Scuola vuole essere un’alternativa alle espressioni artistiche di chiara propaganda fascista. Ricerca, nel legame profondo con la città di Roma e l’antichità, una dimensione più intima e personale, con forte attenzione alle ricerche cromatiche, alle tonalità del colore.

Nel 1932 espone per la prima volta alla III Sindacale, ma la mostra veramente importante è la prima personale alla Galleria della Cometa (aperta dalla contessa Mimì Pecci Blunt) nel 1936, assieme ad Adriana Pincherle (v.n.446), sorella dello scrittore Alberto Moravia e sua amica di gioventù.

Viene notata dalla critica per l’intensità e la poesia della sua pittura.

Negli anni del secondo dopoguerra si dedica intensamente all’insegnamento, prima a Modena poi all’Istituto di Arte Applicata di Roma, dove fonda la sezione di disegno su tessuto, dalla tecnica batik alla serigrafia. Si dedica anche alla scenografia e ai costumi teatrali. Lavora per il Maggio Musicale Fiorentino e per il Teatro delle Arti di Roma.

Si presenta assieme al padre alla VI Quadriennale di Roma del 1951 e nello stesso anno fa una mostra personale alla Galleria Lo Zodiaco. I suoi quadri in questo periodo hanno un’impronta neocubista, collegandosi alle tendenze artistiche europee.

Rinuncia poi a partecipare alle mostre cui è invitata, dedicandosi a una pittura astratta sperimentale, senza intenti espositivi. 

Molti i disegni che continua a fare, autonomi dalla pittura, tutti di grande qualità e in cui evidenzia la vocazione figurativa.

Muore a Roma nel 1985.

Nel 2021 le è stata dedicata una mostra a Villa Torlonia (Casino dei Principi), a Roma, con opere raccolte e catalogate dal nipote Alessandro Pagliero, figlio della sorella Guenda: autoritratti di straordinaria modernità, ritratti di amici, di parenti, di intellettuali, animali e nudi molto sensuali. Una serie di vedute di Roma ad acquarello e china mostra il talento nel disegno, nella capacità di riprodurre volumi con pochissimi tratti. Gli autoritratti sono vari e sintetizzano gli aspetti del carattere dell’artista, dalla malinconia alla volontà di nascondersi dietro travestimenti e trucchi, la sua inquietudine. Le immagini familiari sono invece cariche di dolcezza. Le sue pennellate sono dense, accentuati i rapporti tra luci e ombre, incisivo il collegamento tra figure e ambiente.

Quando affronta la fase neocubista procede in modo originale, con colori essenziali e tratti netti.

Arte al femminile (597)

Ancora pittura, ancora una pittrice italiana del ‘900…

Eva Quajotto nasce a Mantova nel 1903.

Inizia da ragazza ad appassionarsi alla pittura, frequentando lo studio di Pietro Focardi, pittore che segue la tecnica divisionistica in modo spontaneo, verista. Il Divisionismo è un fenomeno artistico italiano, nato alla fine dell’800, caratterizzato dalla separazione dei colori in singoli punti o linee, che interagiscono fra loro, garantendo grande luminosità. Il Verismo invece si concentra sullo studio della realtà e l’osservazione del vero, scegliendo colori conformi alla natura. I soggetti sono tratti dalla vita quotidiana. (v. il seguente quadro del pittore)

Queste tecniche saranno riviste da Eva in modo personale.

Nel 1928 si trasferisce a Roma, entrando in contatto con la Società degli Amatori e Cultori. Nella capitale insegna Disegno e Storia dell’Arte, impostando la propria attività di pittrice professionista.

Diventa amica e ritrattista di letterati e artisti, quali Marinetti, Aleramo, Alvaro, Deledda, Palazzeschi e Moravia.

Partecipa giovanissima alla Biennale di Venezia.

Nel 1930 fa uno mostra personale a Roma, esponendo 45 dipinti.

Durante gli anni Trenta partecipa alle maggiori rassegne nazionali, alle Biennali e Quadriennali.

Cerca di farsi conoscere anche all’estero, a New York, Baltimora, Syracuse, ottenendo apprezzamenti da parte della critica.

Nel 1948, su incarico del Ministero della Cultura, fa un viaggio di studio in Germania, Belgio, Olanda. Collabora con molte riviste e periodici: La Stirpe, La fiera letteraria, Noi donne.

Continua a esporre e nel 1950 pubblica un romanzo di carattere autobiografico, Bestie e noi. Quest’opera manifesta il suo grande amore per gli animali.

Scrive racconti, testi storico-artistici, recensioni e fa illustrazioni per giornali romani. Si interessa di sceneggiatura.

Alcuni suoi quadri sono stati acquistati dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma.

Muore a Vallerano (Viterbo) nel 1952.

Arte al femminile (594)

Ci sono artiste la cui morte prematura ha impedito di poter vedere lo sviluppo della loro arte. L’artista fiorentina Vittoria Morelli è una di queste.

Vittoria Morelli è una pittrice italiana di cui poco si sa, ma che, nella sia pur breve vita, ha manifestato un grande talento.

Un suo quadro, Interno con figure, è conservato nella Galleria degli Uffizi ed è stato restaurato nel 2018. In esso si manifesta la sua vena narrativa e lo stile naturalistico, attento ai dettagli. Si comprende l’alta qualità della sua produzione artistica.

Vittoria nasce a Firenze nel 1892.

Attiva tra Roma e Firenze negli anni Venti e Trenta, lavora creando figurini di moda per la stilista di fama internazionale Maria Monaci Gallenga, ma soprattutto come illustratrice di libri per l’infanzia e per il Giornalino della Domenica.

A Firenze l’editoria e l’industria del libro hanno in questo periodo un peso rilevante. L’attività di illustratrice viene considerata particolarmente adatta alle donne, in quanto si può svolgere in ambito domestico.

Sappiamo della sua amicizia con la pittrice Fillide Giorgi Levasti (v.n.573), che introduce nell’ambiente romano.

Partecipa con i suoi quadri alle mostre organizzate a Roma in questi anni.

Muore a Roma nel 1931, a 39 anni.

Arte al femminile (593)

Maria Grandinetti Mancuso fa parte di quel gruppo di pittrici italiane del ‘900, che dipingono per istinto naturale quello che vedono, così come lo vedono, affidandosi unicamente alle proprie capacità espressive e al colore.

Come osservato più volte, a Roma e in genere nelle città italiane culturalmente più vivaci, la vita artistica ruota intorno ai salotti, ai circoli, più che esprimersi liberamente.

Maria nasce nel 1891 a Soveria Mannelli, un paese della Sila (provincia di Catanzaro, Calabria), in una famiglia della media borghesia: il padre Giovanni è ingegnere agrimensore, la madre Angelina Maruca casalinga.

Nel 1902 la famiglia si trasferisce a Napoli e Maria può dedicarsi agli studi artistici: studia presso l’istituto Vittoria Colonna prima ed è tra le prime donne a frequentare l’Accademia di Belle Arti a Napoli.

Nel 1911 sposa Cesare Mancuso, uomo colto e facoltoso, avvocato e magistrato nelle Forze armate nel periodo bellico, seguendolo prima a Bari, a New York e quindi stabilmente a Roma dal 1912.

La sua casa romana viene frequentata da artisti e intellettuali, come De Chirico, Balla e Ungaretti.

Nel 1914 allestisce due mostre personali a Roma, suscitando l’interesse dei rappresentanti della cosiddetta “avanguardia romana”. Partecipa poi alla III esposizione della Secessione Romana nel 1915 e alla Secessione Romana del 1916-17.

Nel 1917 nasce il figlio Mario.

Nell’ambito delle esperienze espositive romane, la pittrice si inserisce nel gruppo di artiste d’avanguardia come Pasquarosa (v.n.581) e Deiva De Angelis (v.n.582): partecipa nel 1918 alla Mostra d’Arte indipendente pro Croce Rossa presso la Galleria del giornale «Epoca ».

Con l’avvento del fascismo, cui è avversa, inizia un periodo di diminuita attività. Si avvicina alla pittura metafisica, con opere particolari come colore e soggetti.

Nel 1930 è a Parigi e incontra il pittore Maurice Utrillo e il critico Waldemar George, che scrive una monografia per lei in francese. Contestualmente si guadagna una monografia anche in tedesco (edita nel 1930 da Italo Tavolato) e in italiano, con la presentazione di Mario Recchi e Roberto Melli.
Nel 1931 viene organizzata una personale a Parigi, alla galleria Rosemberg, evento in cui si verifica un drammatico episodio: le tele della pittrice giungono deturpate da alcuni tagli, forse per «una esplicita rappresaglia di carattere politico » (Grasso 2002). Nello stesso anno pubblica una raccolta di testi critici e spunti autobiografici.

Nel 1933 allestisce una personale alla galleria Sabatello di Roma, con un successo di critica che le procura l’acquisto da parte dello Stato Italiano del Ritratto di Teresa Labriola (Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea).

Nel 1936 espone alla galleria Apollo di Roma ed è presente alle Quadriennali di Roma del 1935, 1939 e 1943. Nel 1940 due sue mostre personali sono allestite a Milano (Casa d’artisti) e Genova (Galleria Genova). Nel 1942 espone al Teatro Quirino di Roma: l’attività è intensa.

Convinta sostenitrice della pace universale attraverso le arti, dedica a questo obiettivo nel 1946 la fondazione della rivista «Arte contemporanea (Arte-scienza-pace)», attiva fino al 1968. Si avvicina nel 1951 all’associazione inglese General Welfare con cui fonda la Lega delle Arti e delle scienze, oltre ad aderire a congressi internazionali pacifisti.

Trascorre gli ultimi anni della sua esistenza afflitta da disturbi psichici (dopo la morte del marito ha una patologia depressiva), proprio quando l’attenzione della critica sembra rivolgersi nuovamente alla sua pittura.

Muore nell’Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma nel 1977.

I suoi dipinti sono conservati, per la quasi totalità, in collezioni private.

Alcuni quadri sono stati presentati presso il MAON- Museo d’arte dell’Otto e Novecento (a Rende- Cosenza), in occasione di mostre collettive, dedicate all’arte del Novecento Italiano, l’ultima delle quali si è tenuta nel 2013.

Arte al femminile (591)

Elizaveta Kaehlbrandt Zanelli nasce a Riga nel 1880.

Si forma presso l’Accademia di Belle Arti di Pietroburgo e si perfeziona in seguito negli studi di artisti di Monaco e Parigi.

Nel 1904 espone per la prima volta a Riga e nel 1906 è a Vienna, dove ottiene molte commissioni per ritratti di famiglie nobili austriache. Viene invitata nel castello dei Principi Reuss di Vienna, alla Corte di Graz in Germania e nei castelli di Altenburg, Neuhoff e Jannowitz in Slesia, per interessamento della regina Eleonora di Bulgaria, nata principessa Reuss.

Durante un viaggio in Italia con la sorella Heddy, nel 1908, visita prima Venezia e poi Roma, dove conosce lo scultore bresciano Angelo Zanelli (autore del basamento dell’Altare della Patria).

I due si sposano a Riga nel 1909 e si stabiliscono poi a Roma.

Come si usava allora, nel suo salotto Elizaveta riceve sia alcuni esponenti della comunità russa stabilitasi in città, che illustri artisti italiani. Durante le “Domeniche in casa Zanelli” la socievole e raffinata Elizaveta instaura molte amicizie.

Trascorre poi le estati ad Anticoli Corrado, località allora meta di molti pittori, che nella bellezza del paesaggio e delle donne del luogo trovano ispirazione per le loro opere. In questa pittoresca località Elizaveta riprende scene di vita contadina e scorci del paesaggio ciociaro, che appaiono nei quadri che espone nel 1920 nel Padiglione Russo della XII Biennale di Venezia. Alcuni suoi quadri li dona al comune del paese, dove nel 2004 si è tenuta la mostra “Pittrici nella Valle dell’Aniene”.

Dopo diverse esposizioni in ambito romano, nel maggio 1928 è a Milano, presso la Galleria Micheli. Qui espone sia scene campestri che paesaggi marini, ispirati all’Isola d’Elba, dove ogni tanto ama soggiornare.  

Elizaveta dipinge in modo continuativo ed è presente in mostre sia personali che collettive (Mostra degli Amatori e Cultori d’Arte, a Roma- Biennale di Venezia- Biennali Romane- Mostra d’arte Marinara a Roma).

Ad intervalli regolari soggiorna con il marito anche presso il lago di Garda, che ama molto e riproduce nei quadri.

Dopo la morte del marito nel 1942, si ferma sino al 1951 presso il lago di Garda, torna poi a Roma e ad Anticoli, profondamente scossa da questa perdita. Nel 1958 lei e la figlia Magda si trasferiscono a Bergamo. Qui conduce una vita molto appartata, ma continua a dipingere ed esporre sino alla morte nel 1970.

A Brescia, città di nascita del marito, si trasferisce la figlia Magda e vengono organizzata diverse mostre dedicate a questa artista lettone. L’ultima è stata allestita nel 2009.

Arte al femminile (587)

Carla Accardi ha saputo uscire dagli stereotipi del suo tempo, per un’arte innovativa, ricca di colore e da decifrare di volta in volta.

Nasce a Trapani nel 1924 in una famiglia benestante, in cui vi sono modelli femminili forti, con una cugina scrittrice e un’altra politica.

Consegue la maturità classica a Trapani e in seguito s’iscrive all’Accademia di Belle Arti di Palermo, dove si diploma nel 1947.

Nello stesso anno si trasferisce a Roma, dove frequenta un locale, l’Osteria Fratelli Manghi, che le permette di conoscere esponenti della cultura romana: artisti, scrittori, poeti e registi.

Interessata al movimento dell’astrattismo, dà vita al gruppo Forma 1, un collettivo di artisti uniti dalla convinzione che l’arte debba essere priva di significati simbolici o psicologici, per cui il segno, la forma contano per se stessi, comunque in grado di destare emozioni.

In seguito procede da sola nella personale ricerca artistica, una delle prime donne italiane a dedicarsi all’astrattismo. La sua arte si basa su due cardini: da una parte l’astrattismo inteso come riduzione all’essenziale di forme e segni, dall’altro il desiderio di dare messaggi forti, a favore delle proprie idee. L’astrattismo nasce dalla scelta degli artisti di negare la rappresentazione della realtà, per esaltare i propri sentimenti attraverso forme, linee e colori.

Utilizza la classica tela, dipinta con materiali inusuali (come la caseina), creando a volte installazioni, che proseguono ed espandono la tela nello spazio.

Nel 1950 fa la prima mostra personale. Si sposta poi a Milano, dove entra in contatto con gli esponenti del gruppo MAC (Movimento Arte Concreta), che sperimentano un astrattismo geometrico, distaccato da qualsiasi interpretazione simbolica delle forme. Carla collabora con il gruppo sino allo scioglimento dello stesso nel 1958.

Il critico d’arte francese, Michel Tapié, grande promotore dell’arte informale, la invita a numerose mostre in Italia e all’estero, rendendola la prima pittrice astrattista italiana a essere conosciuta e famosa a livello internazionale.

Tra gli anni Sessanta e Settanta l’artista tende a “uscire” sempre più dalla tela, con installazioni particolari. Utilizza materiali plastici, come i sicofoil, un tipo di acetato di cellulosa trasparente, dipinto con vernici e smalti. Questi vengono stesi o arrotolati o usati come tende o “tappeti” percorribili.

Negli anni Ottanta invece produce tele grezze di grandi dimensioni, su cui dominano segni in numerose varianti e diversi colori.

Negli anni Novanta torna alla tela classica.

Contemporaneamente al lavoro artistico, la pittrice fa parte dei movimenti femministi italiani, dando vita, insieme a Elvira Banotti e a Carla Lonzi, al gruppo Rivolta femminile.

In tarda età riceve importanti riconoscimenti: nel 1996 fa parte dell’Accademia di Brera e nel 1997 entra nella Commissione della Biennale di Venezia.

Muore nel 2014, a 90 anni.

Le sue opere si possono vedere in diversi musei dedicati all’arte contemporanea, sia in Italia che all’estero. Un gruppo nutrito di opere si trova presso il Museo di Arte Contemporanea di Roma. Nel Castello di Rivoli in Piemonte ci sono tre suoi lavori, altri sono nel Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento, nelle Gallerie Civiche di Modena e Bologna, nel Palazzo Reale e nella Fondazione Prada di Milano.

All’estero ci sono suoi lavori al Guggenheim Museum di New York e allo S.M.A.K. di Ghent in Belgio.

Il suo obiettivo è “Prima commuovere e poi far capire”.“Tutte le cose che ho fatto – afferma – le ho volute. In fondo il lavoro si fa per sé, non si fa per gli altri, perché se lo fai per gli altri segui sempre delle cose che non sono pure, che sono delle imposizioni, delle influenze, invece seguire il proprio sogno è diverso, perché fai una cosa e la prima volta che la fai ti sembra strana, dopo ti ci immergi e ne ricavi un significato”.

Arte al femminile (583)

La scultura rimane appannaggio di poche artiste, in parte per la fatica fisica che comporta, ma anche in questo “linguaggio” artistico le donne apportano una propria originalità.

Antonietta Raphael nasce a Kovno, un piccolo villaggio nei pressi di Vilnius (Lituania) nel 1895, figlia di un rabbino della piccola comunità ebraica del territorio.

Dopo la morte del padre nel 1903, la vita diventa difficile, anche per l’antisemitismo fomentato dalla polizia zarista. Nel 1905 si trasferisce con la madre a Londra, dove studia musica, si diploma in pianoforte e tiene corsi di solfeggio.

Nel frattempo frequenta il British Museum e conosce alcuni artisti interessanti.

Alla morte della madre, lascia Londra per un viaggio solitario senza una meta precisa, portando con sè solo un violino, altro strumento da lei amato: si trasferisce a Parigi e da qui a Roma, forse con l’intenzione di andare in Grecia. Roma però l’affascina e qui si ferma.

Nel 1925 inizia a frequentare l’Accademia di Belle Arti e conosce il pittore Mario Mafai, cui si lega in un sodalizio artistico e sentimentale. Dall’unione nascono tre figlie: Miriam, Simona e Giulia.

La loro casa di via Cavour a Roma è luogo di incontro di artisti e letterati.

Dice Antonietta: «Roma da quelle parti era stupenda, tutte piazzette, casette e noi avevamo una casa all’ultimo piano con un terrazzo enorme, meraviglioso, dove mangiavamo, dipingevamo, chiacchieravamo, e di lì c’era quella veduta che faceva rimanere senza fiato.»

Lei e il compagno guardano con interesse all’espressionismo, in contrapposizione ai richiami neoclassici e formali dominanti allora. Per gli espressionisti è l’artista che esprime le emozioni dettate dalla realtà. L’arte è intesa come sensazione che trasforma la realtà, modificando linee, forme e colori. Per ritorno al neoclassicismo si intende invece la ricerca di rigore e oggettività, di una bellezza ideale.

Antonietta si dedica sempre più alla scultura, con proprie modalità espressive, che risentono della sua cultura internazionale.

Nel 1929 espone alla I Sindacale del Lazio.

Nel 1930 è a Parigi, per perfezionarsi nella scultura, che è diventata la sua passione. Il cambio di interesse è la conseguenza del desiderio di allentare il continuo confronto con il lavoro del marito: «è difficile vivere insieme per due artisti che hanno la stessa arte della pittura. Io criticavo lui e lui criticava me. Così andai a scuola serale di scultura» (Antonietta Raphaël. Opere dal 1933 al 1974, 2003, p. 150).

Nel 1932 è a Londra, a lezione dello scultore Jacob Epstein. Nel 1933 la troviamo di nuovo a Parigi, dove dà lezioni di pianoforte e inglese per mantenersi: cerca sempre di perfezionarsi nella scultura.

Stabilitasi definitivamente a Roma, partecipa a varie esposizioni.

Nel 1935 si sposa con Mafai.

Nonostante l’apprezzamento della critica, le sue opere vengono considerate troppo originali ed “esotiche” dal pubblico.

In seguito alle leggi razziali fasciste, in quanto ebrea, si rifugia prima vicino a Forte dei Marmi poi a Genova con la famiglia, nascosta e aiutata da amici.

Dal 1943 al 1945 alterna il soggiorno a Roma con periodi di permanenza a Genova, dove collabora con altri scultori.

Nel 1948 è presente alla Biennale di Venezia.

Superato un periodo di difficoltà economiche, espone nel 1952 alla Galleria dello Zodiaco di Roma, nel 1956 vince il premio Spoleto.

Nel 1956 si reca in Cina con altri artisti ed espone a Pechino. Seguono molte mostre collettive in Europa, Asia e America.

Gli anni ’50 sono gli anni dei viaggi in Sicilia, in Spagna e in Cina.

Nel 1960 appare la prima monografia e il Centro Culturale Olivetti le dedica un’antologica, con 39 dipinti e 13 sculture.

Nella seconda metà degli anni Sessanta continua a lavorare con fervore, si dedica alla fusione in bronzo di sue opere, a sculture e a grandi quadri dedicati a temi biblici.

Partecipa alle varie Quadriennali romane, alla Biennale di Venezia e acquista prestigio internazionale.

Nel 1965 rimane vedova, con grande dolore e dedica al marito la grande tela Omaggio a Mafai.

 Nel 1970 è tra gli scultori italiani selezionati dalla Quadriennale di Roma per la mostra Scultori italiani contemporanei, itinerante in diversi Paesi Europei, in Sudamerica e in Giappone.

Sperimenta la litografia. Lavora sino alla fine.

Muore a Roma nel 1975.

Femminilità e maternità sono temi ricorrenti nella sua opera, così come l’indagine sul proprio mondo interiore, attraverso numerosi autoritratti.

Le origini ebraiche si manifestano invece nella rappresentazione di eroine bibliche.

Presenti nella sua opera sono anche gli affetti importanti della sua vita, soprattutto le figlie.

La pittura è carica di elementi fantasiosi e di emotività.

Nel 2021/2022 le è stata dedicata una mostra presso la Galleria Nazionale d’arte Moderna e Contemporanea di Roma, in collaborazione con l’Istituto Lituano di Cultura e l’Ambasciata di Lituania in Italia.

Le figlie hanno inaugurato nel 2012 il Centro Studi Mafai Raphael, per valorizzare l’eredità artistica dei loro genitori e promuovere iniziative culturali per farli conoscere.

Arte al femminile (582)

Ai primi del ‘900 ci sono ragazze che si avventurano a Roma, in cerca di fortuna e il lavoro di modella è richiesto nell’ambiente artistico…

Deiva (Terradura) De Angelis nasce a Piccione, frazione tra Perugia e Gubbio nel 1885. Non si hanno notizie certe sulle sue origini e pare che sia figlia di una ragazza madre.

La sua è una famiglia molto povera e lei va a Roma, giovanissima, dove si mantiene vendendo fiori in piazza di Spagna e facendo la modella.

Ha una relazione con l’acquarellista William Walcot, che conosce nel 1903, a 18 anni, e con lui si reca a Londra e a Parigi, avviandosi alla pittura. Dipinge piccole vedute veloci e personali. Entra in contatto con l’ambiente artistico internazionale e approfondisce il linguaggio postimpressionista, per cui figure ed elementi naturali vengono appena accennati in base all’impressione immediata e personale.

Tornata a Roma, sposa l’avvocato pugliese de Angelis, dal quale si separa molto presto, pur conservandone il cognome, con cui firma i suoi lavori.

Inizia a frequentare regolarmente l’ambiente artistico della capitale e qui incontra Cipriano Efisio Oppo, pittore, disegnatore, illustratore satirico, organizzatore di eventi artistici, in contatto con il movimento dei secessionisti romani, contrari all’arte ufficiale accademica.

Tra i due nasce un’appassionata relazione. Vanno a vivere nella Villa Strohl-Fem, dove Oppo ha uno studio: in questo luogo magico, affacciato su Villa Borghese, voluto da un ricco mecenate, nasce la Scuola romana, di cui fa parte anche la pittrice Pasquarosa (v.n.581), che diventa amica di Deiva.

Nel 1913 Deiva presenta una sua opera alla prima Esposizione Internazionale d’Arte della Secessione a Roma. Seguono altre mostre, per cui ottiene l’attenzione della critica.

Lasciato Oppo, Deiva si lega al pittore, illustratore Giuseppe Fabiano, che sposa poco prima di morire.

Espone a Milano, Ginevra, oltre che nella capitale.

Dal 1918 frequenta la Casa d’arte Bragaglia, disegnando caricature, ritratti, vedute, scene di animali per la rivista collegata alla Galleria, Cronache d’attualità. Qui lavora anche come consulente per le scelte espositive.

Nel 1921 illustra liriche e poesie di Arturo Onofri.

Molto attiva, è presente in varie collettive sino al 1924. Soggetti preferiti sono nature morte e paesaggi, soprattutto dedicati al lago di Bracciano e alle campagne circostanti, dove ama soggiornare.

Colpita da una malattia irreversibile, vende tutte le sue opere per curarsi.

Muore a Roma nel 1925, a 40 anni.

Rappresenta un caso particolare nella pittura italiana del ‘900 per il valore delle sue opere, l’esiguo numero di dipinti e disegni conosciuti, essendo dispersi in collezioni private, per le scarse notizie biografiche e la libertà delle sue scelte di vita, sino alla prematura tragica fine.

Dipingeva come un uomo” affermava ammirato il fotografo e regista Anton Giulio Bragaglia, che la conosceva bene. “Un ottimo cervello maschio” e una “modernissima colorista” aggiungeva. Era il massimo dei complimenti per una pittrice degli anni Venti del Novecento! Lei, Deiva, bellissima, si vestiva da uomo seguendo la moda androgina europea e si ritraeva con la sigaretta in bocca. Audace ed esuberante, amava la pittura d’avanguardia, ma aveva un tratto personale.