Arte al femminile (579)

Avendo ricordato Kate Horna (v.n.578) non si può non citare Margaret Michaelis- Sachs, che con lei condivide l’esperienza di fotografa durante la Guerra Civile Spagnola (1936-1939).

Margaret Michaelis- Sachs nasce a Dziedzice, nel 1902, quando questo territorio della Polonia meridionale appartiene ancora all’Impero Austro-ungarico.

Il padre Heinrich Bross è un medico ebreo benestante: Margaret ha quindi buone opportunità educative.

Margaret si appassiona alla fotografia e studia a Vienna dal 1918 al 1921, collaborando con atelier prestigiosi, come quello di Dora Kallmus.

Si specializza nella ritrattistica e inizia anche a dipingere, avventurandosi nel nudo, molto richiesto, ma ritenuto poco adatto a una donna. La fotografia per lei diventa mezzo di sostentamento e di carriera.

Nel 1929 è a Berlino, presso lo studio di Suse Byk, una delle più importanti ritrattiste degli anni ’20.

Qui incontra Rudolf Michaelis, restauratore anarchico antifascista, che sposerà nel 1933. Entrambi vengono arrestati, in seguito all’avvento del Nazismo. Una volta rilasciati, fuggono in Spagna, a Barcellona.

Nel 1937 i due si separano, ma mantengono un rapporto di amicizia e una fitta corrispondenza per tutta la vita.

Margaret inizia a interessarsi della fotografia come strumento di denuncia sociale: riprende marinai, bambini, zingari, gente dei quartieri cosiddetti malfamati, evidenziando le condizioni di vita drammatiche di certi strati della popolazione. Le sue immagini sono pubblicate su giornali e riviste.

Collabora anche con un gruppo di architetti, per documentare i loro lavori.

Con Kate Horna documenta aspetti quotidiani durante la guerra civile spagnola. Le sue simpatie sono rivolte alle persone che combattono in difesa della Repubblica, sono risposte rapide ed energiche alla situazione di drammatico cambiamento in Catalogna e Aragona

In seguito si sposta in Francia, Polonia, Inghilterra, per approdare infine in Australia, a Sydney. Qui si stabilisce definitivamente.

Dopo anni molto duri, in cui lavora come domestica, riesce ad aprire un proprio studio fotografico, dedicandosi sia ai ritratti che a documentare l’attività di alcuni corpi di ballo. È una delle poche donne fotografe a lavorare a Sydney. La sua clientela è spesso europea, ebraica, ma comprende anche molti artisti. Mentre in Spagna fotografa principalmente all’aperto, in Australia lavora nel suo studio, controllando attentamente i diversi elementi compositivi e l’illuminazione, producendo lavori più introspettivi.

Nel 1945 viene naturalizzata australiana.

Nel 1952, per problemi di vista, cessa l’attività fotografica.

Nel 1960 sposa Albert George Sachs, commerciante di vetro, e si trasferisce a Melbourne, ma rimane vedova nel 1965.

Margaret si dedica ad alcuni viaggi in Europa e in Oriente, sino al termine della vita, nel 1985.

Alla fine della Guerra Civile Spagnola, le sue foto, scattate con una Leica, insieme a quelle di Kate Horna, e a molti documenti, chiuse in 48 casse di legno, sono state spedite all’Istituto internazionale di Storia Sociale (IISG) di Amsterdam e lì dimenticate. Solo 80 anni dopo la storica dell’arte Almudena Rubio le ha riscoperte ed esposte a Madrid, per la prima volta, nel 2022, ridando fama a lei e all’amica Kate Horna. Tra le immagini di Margaret ci sono scene di strada di militanti anarchici, vedute della vita quotidiana a Barcellona e nei villaggi catalani, rare fotografie dell’anarchica combattente Emma Goldman, l’arrivo della Croce Rossa britannica a Portbou, al confine tra Francia e Spagna.

“L’eredità dell’opera di Michaelis e Horna è unica, proprio perché ci mostra l’esperienza rivoluzionaria di retroguardia, trascurata dalla storiografia ufficiale, fomentata dagli anarchici della CNT-FAI. Allo stesso tempo, ci permette di ricostruire più in dettaglio la vita dei due fotografi durante la guerra civile, e per apprezzare meglio il loro lavoro nella Spagna antifascista.”

Presso la National Gallery of Australia vi è un vasto archivio a lei dedicato.

Arte al femminile (577)

Rimango nell’ambito della fotografia…

Ghitta Klein Carrell nasce nel 1899 a Szatmar (Batmar) in Ungheria, figlia di Ignazio Klein e Lotti Sonnenberg, famiglia ebrea, con il padre commerciante di scarpe.

Appassionatasi alla fotografia, segue a Budapest un corso per signorine, che segue la moda del tempo, con pose languide, ambientazioni dalle luci soffuse.

Con il tempo si sgancia da questa impostazione, ricercando maggiore obiettività nei ritratti.

A Budapest frequenta gli ambienti intellettuali e conosce personaggi rappresentativi della cultura ungherese (es. Bela Bartok, musicista).

Per completare la propria educazione e migliorare la tecnica della fotografia, si trasferisce per un periodo prima a Vienna, poi a Lipsia: questo secondo la sua biografia, per alcuni non del tutto precisa.

Nel 1924 è a Firenze, entra in contatto con gli intellettuali che si incontrano al Villino degli Angeli (Fiesole), dove si sono stabiliti gli esuli ungheresi Marki e Matild Vedres, lui pittore e lei storica dell’arte. Inizia a pubblicare immagini su riviste di moda.

Il successo viene decretato dalla fortunata fotografia di un balilla, utilizzata per un manifesto fascista a vastissima tiratura. “Era un. bambino bellissimo, aveva capelli neri ed occhi azzurri. era vestito da balilla … lo incontrai per caso sulla porta della pensione …“, ricorda Ghitta (Leydi, 1972).

Ottiene una tale fama, che deve cercare uno studio più grande. Si trasferisce a Roma e il suo atelier è frequentato da esponenti dell’aristocrazia, dell’alta finanza, della politica, della Chiesa e della cultura ufficiale. Farsi fare un ritratto da lei diventa quasi un obbligo ufficiale.

Carrell è uno pseudonimo che utilizza da questo momento.

Fotografa la principessa di Piemonte, Maria Josè, Margherita Sarfatti, Edda Ciano Mussolini, per citarne alcune.

Il suo intento è quello di andare oltre i tratti del volto, per cercare la personalità e la verità interiore del soggetto che ritrae. Nella sua opera si intuiscono i desideri e le ambizioni della classe allora al potere. Si sofferma sui tagli, l’uso delle luci, le inquadrature, i particolari, arrivando a uno stile inconfondibile. Sulla lastra sono fissati ritratti che poi Ghitta ritocca a tavolino, con un apposito leggio e una serie di strumenti (matite, pennelli, colori, raschietti) che fanno sembrare il suo atelier più lo studio di un pittore che di un fotografo. La sua è una ricerca costante di bellezza.

Ghitta, in quanto ebrea, non può permettersi, pena la vita, alcuna critica aperta e diretta verso la società del tempo. Usa talvolta un sottile umorismo, in alcuni ritratti. Le leggi razziali del 1938 la portano a essere censurata. Trascorre gli anni della guerra tra Roma e Milano, protetta da alcuni amici.

Dopo la guerra rinuncia alla cittadinanza ungherese e nel 1959 ottiene quella italiana.

Nel secondo dopoguerra su di lei pesa il rimprovero di avere fotografato esponenti del fascismo. Si riabilita con i ritratti fatti a papa Giovanni XXIII nel 1960.

Nel 1969 si trasferisce in Israele e lascia il suo archivio di negativi (50.000 lastre) al Centro Informazioni Ferrania (poi confluita nella 3M).

I suoi soggetti diventano le persone “comuni”.

Muore a Haifa nel 1972.

Donna colta e intelligente, determinata e dalla forte personalità, non ha lasciato nella storia della fotografia la traccia che la sua arte avrebbe meritato.

Solo nel 2011 è stata fatta, nella sua terra natale, una mostra a lei dedicata, presso il Museo Nazionale Ungherese.

Arte al femminile (566)

Ricordando Alice Rahon (v.n.565), si è parlato del viaggio fatto da lei e dal marito per visitare siti precolombiani nel Canada, in Alaska e in Messico. Compagna di questa esperienza è stata una valente fotografa.

Eva Sulzer nasce a Winterthur, in Svizzera, nel 1902.

Pochi i dati biografici che la riguardano.

Si dedica alla pittura e si appassiona alla fotografia, recandosi in Francia per trovare un ambiente a lei favorevole.

Conosce il pittore Wolfgang Paalen nel 1931, con cui stringe una forte amicizia. Con lui va a Parigi e in seguito lo segue quando emigra in America.

Nel 1939 con Paalen e Alice Rahon compie un lungo viaggio attraverso l’America settentrionale e centrale, scattando pregevoli fotografie.

Secondo alcune indiscrezioni del tempo Paalen, Alice Rahon ed Eva Sulzer formano un mènage à trois per circa nove anni. Il poliamore e la bisessualità sono accettati e protetti nell’ambiente di allora.

Eva colleziona manufatti precolombiani e opere d’arte indigene, che vengono fotografati e pubblicati in riviste specializzate.

Negli anni ’40 la troviamo a Città del Messico, nel gruppo degli artisti surrealisti qui emigrati, in seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Pubblica molte fotografie, oltre che scrivere articoli, nella rivista surrealista Dyn, curata da Paalen, di cui Eva è il principale finanziatore.

Questo periodico viene pubblicato a Città del Messico e distribuito a New York, Parigi e Londra. Edito in inglese e francese, tratta di arte, presenta nuovi artisti e teorizza un’idea di pittura aperta a tutte le possibilità, anche alle nuove conoscenze nel campo della fisica e della filosofia.

Realizza film e documentari, raggiungendo una certa fama.

Gli ultimi anni sono caratterizzati da crescenti problemi di salute, dovuti soprattutto al disturbo bipolare che l’accompagna per tutta la vita, per cui è soggetta a forti crisi depressive.

Amici e mecenati le comprano una vecchia casa con uno studio adeguato nella cittadina di Tepoztlàn a Morelos (Messico centro-meridionale), dove può stare più tranquilla.

Vive e lavora come fotografa e regista sino alla sua morte nel 1990 a 87 anni a Città del Messico.

Le sue foto rimangono importante testimonianza di manufatti antichi dell’arte precolombiana.

Arte al femminile (527)

Altra pioniera della fotografia…

Julia Margaret Cameron nasce a Garden Reach, nei pressi di Calcutta (India) nel 1815.

Il padre è James Pattle, ufficiale della Compagnia delle Indie Orientali, la madre invece, Adeline de l’Etang, viene dalla nobiltà francese.

Julia viene mandata prima a Parigi, poi a Londra per ricevere un’istruzione adeguata alla sua condizione sociale.

Nel 1936, mentre si trova convalescente presso il Capo di Buona Speranza, conosce Charles Cameron, uomo d’affari e politico, vedovo e con 20 anni più di lei.

Nel 1938 lo sposa e lo segue a Ceylon. Da lui ha 6 figli e altrettanti ne adotta.

Nel 1848 la famiglia torna a Londra e nel 1860 si stabilisce nell’isola di Wight.

Julia ha modo di frequentare artisti, scienziati e intellettuali famosi a quel tempo.

Nel 1863 Julia ha un momento di crisi, perché i figli sono ormai grandi e il marito deve tornare a Cylon per affari. La figlia maggiore le regala un apparecchio fotografico, per aiutarla a distrarsi. Julia è conquistata dal regalo e la fotografia si trasforma in una vera e propria passione. Si organizza per avere un laboratorio e una camera oscura e inizia a sperimentare. Impara tutta la tecnica che va dalla preparazione della lastra, alla scelta del soggetto da ritrarre, allo scatto, allo sviluppo e alla stampa.

Sceglie di dedicarsi al ritratto e i soggetti preferiti sono bambini e adolescenti, che mette in posa quasi sempre per rappresentazioni allegoriche o riferimenti a racconti. La sua idea di fotografia è originale, perché vuole dare una propria visione del mondo, non una riproduzione meccanica. Le sue foto sono volontariamente sfuocate, piene di ombre, poco delineate nei contorni. Inizia con lei la ricerca artistica nella fotografia, anche se inconsapevolmente.

Fotografa anche personaggi noti, cogliendo le caratteristiche dei volti e le emozioni che li animano.

Partecipa a esposizioni pubbliche e diventa la prima donna ammessa alla Royal Photographic Society.

Nel 1875 ritorna a Ceylon con la famiglia e sospende l’attività di fotografa, anche per problemi legati alla difficoltà di recuperare i materiali necessari.

Muore nel 1879.

Suoi lavori sono conservati a Dimbola Lodge, la residenza in cui è vissuta, divenuta un museo a lei dedicato sull’isola di Wight.

La serie di foto che le ha dato maggiore notorietà è stata l’illustrazione de Gli idilli del Re, 12 poemi scritti dal suo vicino sull’isola di Wight, il poeta Alfred Tennyson.

Le sofisticate inquadrature, i primi piani ravvicinati e l’effetto trasognato delle sue immagini hanno fatto poi scuola per decenni.

Arte al femminile (516)

La fotografia ha visto illustri esempi di artiste donne e solo recentemente vi è interesse per quelle che sono state grandi fotografe, per troppo tempo dimenticate o trascurate.

In precedenti articoli ne ho ricordate alcune: Vivien Maier (n.427), Elizabeth Lee Miller (n.429), Dorothea Lange (n.431), Berenice Abbott (n.492), Margaret Bourke-White (n.493), Imogen Cunningham (n.494), Gertrud Hantschk Arnd (n.508).

Marta Astfalck nasce a Neudamm (Germania nord orientale) nel 1901.

Frequenta la Scuola Tecnica Superiore per l’Industria Tessile e l’Abbigliamento a Berlino dal 1918 al 1920 e, in seguito, la Scuola di Arti e Mestieri.

Si appassiona alla fotografia e, dopo aver seguito un apposito corso e fatto esperienze nello studio di un noto fotografo, inizia a lavorare in modo indipendente.

Ha una collaborazione professionale e artistica con il fotografo Heinz Hajek-Halke, che aveva conosciuto da studentessa. In questo periodo fotografa molti personaggi della scena culturale e artistica berlinese. Importanti le fotografie che fa alla ballerina e coreografa Daisy Spies, allora famosa in particolare per avere presentato una variante moderna del balletto classico.

Nel 1929 sposa l’architetto Hellmuth Astfalck.

Il Nazismo blocca la ricerca sperimentale in ogni campo artistico. Marta e il marito devono ripiegare sulla grafica commerciale e pubblicitaria, nonché sull’interior design. Nascostamente però, di notte, lasciano lo studio a disposizione della Resistenza antifascista, per stampare documenti segreti.

Marta inoltre dà lezioni private ai bambini ebrei esclusi dalla scuola.

Sperimenta la tecnica dell’acquarello, per rappresentare elementi vegetali.

I bombardamenti aerei alleati su Berlino distruggono la sua casa, il suo studio e il suo archivio. Si salvano solo le fotografie personali che aveva inviato al padre, residente nella Germania meridionale

L’ultima parte della sua vita la dedica all’impegno politico ed educativo.

Le sue foto si caratterizzano per l’accuratezza della scena e la volontà di sperimentare nuove tecniche compositive.

Muore a Nienhagen nel 1994.

La Berlinische Galerie di Berlino ospita quello che si è riusciti a recuperare del suo lavoro.

Nel 1912 a Glasgow le è stata dedicata una mostra presso il Dipartimento di Storia dell’Arte dell’Università. In 21 riproduzioni, quasi tutti autoritratti, si è potuta notare la sua intensità creativa e vi sono molti riferimenti alla Germania del primo dopoguerrra.

Arte al femminile (508)

Altra geniale donna del Bauhaus…

Gertrud Hantschk Arnd nasce a Ratibor (Alta Slesia- Polonia) nel 1903.

A 15 anni manifesta il desiderio di diventare architetto, scelta inusuale per una donna del tempo.

A 16 inizia a lavorare come apprendista in uno studio di architettura a Erfurt (Germania centro orientale).

Incomincia a impratichirsi nella fotografia per documentare le costruzioni della città. Acquisisce un bagaglio di conoscenze soprattutto nell’interior design. Scopre il lavoro di Paul Klee e Vassily Kandinsky al Museo di Erfurt.

Nel 1923 visita la mostra Bauhaus a Weimar e ne rimane molto colpita. Ottiene una borsa di studio e nello stesso anno si iscrive alla scuola del Bauhaus.

Purtroppo i corsi di architettura non sono aperti ancora alle donne e in questo la scuola segue i pregiudizi dell’epoca. Come tutte le studentesse che si iscrivono a questo istituto, viene indirizzata ai dipartimenti ritenuti più adatti alle donne: tessitura, ceramica e rilegatura dei libri.

Superato il corso preliminare, Gertrud sceglie la tessitura, dimostrando molta creatività.

Termina i suoi studi con un periodo di apprendistato a Glauchau, presso la gilda dei tessitori.

Nonostante il talento e la preparazione acquisita, Gertrud non vede nella tessitura la modalità espressiva a lei più adatta.

Non avendo mai smesso di interessarsi di fotografia, nel 1926 compra la sua prima macchina fotografia e inizia a fare ritratti che la renderanno famosa.

Nel 1927 sposa il compagno di studi Alfred Arndt.

Si stabilisce con lui a Probstzella, in Turingia. Qui vi è un albergo sorto su progetto Bauhaus.

Nel 1929 al marito è offerto un posto da insegnante presso il Bauhaus di Dessau. Gertrud lo segue e si dedica a supportare la sua carriera.

Nel 1930 riprende la fotografia e inizia una serie di autoritratti. Usa uno dei bagni di casa come studio fotografico e allestisce un set fotografico trovando soluzioni economiche fai-da-te.

Si fotografa con diversi vestiti e pettinature, cambiando l’espressione del viso. Impersona varie tipologie di donne: giovani ragazze, vedove addolorate, geishe piangenti, signore ingioiellate, con cappelli decorati di piume e fiori…In tutto fa 43 scatti in bianco e nero (Ritratti mascherati) e sebbene utilizzi tecniche di stampa rudimentali, ottiene risultati straordinari che in qualche modo richiamano il surrealismo.

L’amica Otti Berger ogni tanto viene associata ai suoi ritratti.

Nel 1931 nasce la figlia Alexandra e nel 1937 Hugo.

Nel 1932 la famiglia è tornata a Probstzella e da lì si sposta poi a Darmstadt.

Il dramma del nazismo prima e la crisi del dopoguerra poi pongono fine alla sua carriera.

La sua opera è riscoperta e rivalutata quando lei espone a Essen nel 1979,

Muore nel 2000.

Nel 2013 è stata realizzata una mostra analizzando i legami tra la sua fotografia e le sue creazioni tessili.

Arte al femminile (494)

Esplorando ancora il mondo delle fotografe…

Imogen Cunningham nasce nel 1883 a Portland (Oregon).

All’età di 18 anni compra la prima fotocamera e capisce che avrebbe fatto la fotografa. Scatta incurante inizialmente del soggetto, sia persona o fiore.

Nel 1903 frequenta l’Università di Washington a Seattle e intraprende un percorso di specializzazione scientifica.

Lavora come segretaria per pagare gli studi e scatta fotografie per il dipartimento di botanica. Scopre che la fotografia può essere arte, rappresentare stati d’animo e provocare emozioni. Il padre le costruisce una rudimentale camera oscura, dove Imogen trascorre ore sperimentando.

Nel 1907 si laurea in Chimica con una tesi su Modern processes of Photography.

Inizia a lavorare nello studio del fotografo Edward S.Curtis, noto per i ritratti degli indiani del Nord America.

Nel 1909 vince una borsa di studio per studiare chimica a Dresda (Germania) e decide di mettere la chimica al servizio della fotografia. Analizza il processo per incrementare la libertà di stampa, migliorare la resa della luminosità e produrre delle tonalità seppia.

Tornata a Seattle apre uno studio fotografico. I soggetti preferiti sono ritratti in ambienti domestici, per cui ottiene un discreto successo. Espone i suoi lavori nella sua città e diventa membro della Compagnia degli Artisti.

Nel 1913 pubblica Photography as a Profession for Women, per dare indicazioni alle donne su come diventare fotografe autonome, dal momento che in questo periodo la fotografia viene considerata cosa da uomini.

Nel 1914 espone a Brooklyn.

Nel 1915 si sposa con Roi Partridge, da cui ha il figlio Gryffyd.

Chiuso lo studio, con la famiglia si trasferisce a Oakland, in California, dove nascono i gemelli Rondal e Padraic. Continua a fare fotografie, soprattutto dei suoi figli e delle piante del suo giardino. Vuole trasmettere la perfezione delle forme della natura e dei suoi incredibili dettagli.

Si interessa sempre di più di fotografia botanica. Tra il 1923 e il 1925 per esempio studia il fiore della magnolia in ogni dettaglio. Continua a esporre.

In Germania conosce la danzatrice Martha Graham, che ritrae, evidenziando la sensualità del movimento, le forme scultoree e i giochi di luce e ombre. Gli scatti vengono pubblicati su Vanity Fair e da qui inizia la collaborazione con la rivista.

Nel 1934 divorzia dal marito e la sua carriera subisce una svolta, ottenendo maggiore riconoscimento.

Negli anni ’40 si dedica alla fotografia a colori. Le sue foto sono intense, intime.

Durante la seconda guerra mondiale vende la casa di Oakland e utilizza lo studio di un amico a San Francisco, città dove si stabilisce dal 1947.

Nel 1973, la San Francisco Commission Art la proclama “Artista dell’anno” e sue foto sono esposte al Metropolitan Museum of Art di New York.

Nel 1975 avvia l’Imogen Cunningham Trust, per conservare e promuovere i suoi lavori.

Muore a San Francisco nel 1976.

Arte al femminile (493)

Altra grande fotografa, che si aggiunge a quante in precedenza ricordate: Margaret Bourke-White!

Al Museo di Roma, in Trastevere, sino al 30 aprile, è stata presentata una retrospettiva che ha documentato, attraverso oltre 100 immagini, la visione e la vita controcorrente di questa figura, tra le più rappresentative del fotogiornalismo.

Margaret nasce nel Bronx (New York) nel 1904. Il padre Joseph White è un inventore e naturalista, per cui la figlia si avvia agli studi di biologia presso la Columbia University. Segue però, mentre è al college, alcuni corsi di fotografia. Cambia diverse università, sino a laurearsi nel 1927. Nel frattempo, nel 1925, si è sposata con Everett Chapman, da cui divorzia due anni dopo.

Nel 1927 inizia a fare della fotografia il proprio interesse principale. Scatta fotografie industriali per lavoro.

A Cleveland, nell’Ohio, ha numerosi clienti, tra cui le acciaierie Otis, che le danno notorietà, perché le sue foto di altiforni e  delle architetture industriali hanno grande valore artistico.

“Per scattare sale sui cornicioni dei grattacieli più alti, sorvola città, si spinge nelle zone più pericolose degli stabilimenti. La sua ostinazione e ambizione infatti non la fermano davanti alle alte temperature delle fusioni, alla ricerca di nuove soluzioni tecniche fotografiche, né la allontanano da lunghe ore di lavoro in ambienti malsani. Le sue immagini presto iniziano non solo ad arricchire di documenti fotografici gli archivi industriali e il suo portafogli, ma anche i servizi delle riviste illustrate e le pagine pubblicitarie.”(da enciclopedia delle donne.it)

Nel 1929 conosce il caporedattore del Time, che la coinvolge nella fondazione di una nuova rivista illustrata, Fortune.

Durante la grande depressione, che sconvolge la vita degli americani, Margaret viaggia per fotografare la realtà degli Stati Uniti, soprattutto di quelli del sud. Dalla sua documentazione nasce il libro You have seen their faces.

Oltre a collaborare con Fortune, lavora in un proprio studio, accettando varie commissioni.

Nel 1936 il primo numero della rivista Life ha una sua foto in copertina, quella della diga di Fort Peck, nel Montana, appena terminata.

Inizia una stretta collaborazione con questa rivista, il che la porta a fare reportages sulla seconda guerra mondiale, sull’assedio di Mosca, sulla guerra in Corea, sulle rivolte sudafricane.

Crede nella missione del fotogiornalismo afferma: “sono fermamente convinta che il fascismo non avrebbe preso il potere in Europa se ci fosse una stampa veramente libera che potesse informare la gente invece di ingannarla con false promesse” (osservazione sempre attuale…).

Sposa lo scrittore Erskine Caldwell, con cui si reca in Russia nel 1941, durante l’invasione nazista, unica fotografa straniera a Mosca.

Scatta il primo ritratto ufficiale di Stalin e nel 1943 documenta i bombardamenti dei caccia americani contro l’esercito tedesco.

La troviamo poi in Italia, al seguito dell’esercito americano, nella zona della cosiddetta linea gotica, a Loiano e Livergnano nell’Appennino Emiliano.

Entra nel campo di sterminio di Buchenwald il giorno dopo la liberazione dei prigionieri, scattando senza guardare, di fronte a tanto strazio e fa parte del gruppo che scopre il campo di Erla.

Supera ogni sorta di disavventure e contrattempi con coraggio e determinazione, diventando una specie di leggenda.

Nel 1947 è in Pakistan e in India, dove ci sono forti tensioni. Intervista e fotografa Gandhi poche ore prima che venga ucciso.

Nel 1950 è in Sud Africa, descrivendo l’apartheid e scendendo sottoterra per documentare il lavoro dei minatori.

Nel 1953 le viene diagnosticata la malattia di Parkinson. Nel 1959 si sottopone a un intervento chirurgico al cervello che viene documentato sui giornali.

Non potendo continuare l’attività di fotografa, inizia a scrivere e l’autobiografia Il mio ritratto, pubblicata nel 1963, diventa subito un bestseller.

Muore nel 1971 a 67 anni.

Arte al femminile (431)

Mi è stata indicata da Francesco, in arte fravikings, un’altra fotografa americana: Dorotea Lange.

Grazie Francesco!

Dorothea Margaretta Nutzhorn nasce a Hoboken(v.foto), nel New Jersey, da immigrati tedeschi di seconda generazione e cresce nel Lower East Side di Manhattan. Ha un fratello minore, Martin.

A 7 anni si ammala di poliomielite e come conseguenza le rimane una gamba destra zoppicante e indebolita. Questa menomazione viene vissuta come spinta per diventare più forte e consapevole delle proprie risorse.

A 12 anni il padre abbandona la famiglia e questo spiega perché Dorothea assuma il cognome della madre e diventi Dorothea Lange.

Si laurea alla Wadleigh High School for Girls di New York.

Decide a questo punto di dedicarsi alla fotografia e inizia i suoi studi di fotografia alla Columbia University. Fa apprendistato presso diversi studi fotografici di New York.

Nel 1918 parte con un’amica per un viaggio, ma dopo essere stata derubata, si stabilisce a San Francisco e riprende il lavoro di fotografa, riuscendo ad aprire un proprio studio per ritratti fotografici.

Nel 1920 sposa il pittore Maynard Dixon, da cui ha due figli: Daniel e John. Per molti anni è lei a mantenere la famiglia.

Inizialmente i suoi lavori riguardano ritratti dell’alta borghesia di San Francisco. Quando scoppia la profonda depressione economica che trova il proprio apice nel 1933, Dorothea scopre la propria vocazione: quella di fotografa documentarista. Testimonia il profondo sconvolgimento sociale ed economico che travaglia il paese. Circa 14 milioni di persone perdono il lavoro, alcuni rimangono senza casa e senza cibo. Siccità e tempeste di sabbia devastano i raccolti del Midwest e migliaia di uomini, donne e bambini emigrano in California in cerca di lavoro, viaggiando in auto sgangherate o camion fatiscenti, per seguire le richieste di manodopera per i raccolti.

Le sue fotografie che ritraggono tanti disperati ottengono l’interesse dei media e Dorothea ottiene un incarico presso la Farm Security Administration. La sua caratteristica è di creare un rapporto di empatia con i soggetti delle sue foto.

Nel 1935 divorzia da Dixon e sposa poi Paul Taylor, professore di economia presso l’Università della California a Berkeley.I due viaggiano insieme per 5 anni documentando la povertà degli ambienti rurali e lo sfruttamento dei mezzadri e dei braccianti. Le immagini toccanti di Dorothea fanno il giro del paese, provocano reazioni e diventano veri e propri simboli di un’epoca. Migrant mother del 1936 è diventata una vera icona internazionale: rappresenta Florence Thompson, di 32 anni, madre di 7 figli, che ha appena venduto i pneumatici del camion del marito per sfamare i suoi figli.

Dorothea amava considerarsi “photographer of the people”, fotografa della gente.

Nel 1941 riceve una prestigiosa borsa di studio per i risultati raggiunti nella fotografia, ma vi rinuncia dopo l’attacco a Pearl Harbour. Rimane colpita dal fatto che i giapponesi americani vengono mandati in campi di internamento: visita diversi centri di raccolta temporanei e il campo di internamento Manzanar, in California. Fotografa l’attesa, l’ansia, la disperazione di persone sottratte alla loro vita, alle loro case, al loro lavoro, munite di cartellini identificativi, sbalordite e spaventate. Il governo sequestra la maggior parte di queste immagini, temendone le implicazioni sull’opinione pubblica.

Queste fotografie di evacuazioni e internamenti si possono ammirare alla Biblioteca Bancroft dell’Università di Berkeley.

Nel 1945 diventa insegnante nella Scuola di Belle Arti di San Francisco.

Nel 1952 è cofondatrice della rivista Aperture e lavora per la rivista Life.

Documenta lo spostamento degli abitanti di Monticello, cittadina della California, in seguito alla costruzione di una diga. Segue poi la questione della difesa delle persone povere nel sistema giudiziario, in seguito all’esperienza dell’arresto e del processo del fratello Martin.

Muore a 70 anni, nel 1965, a San Francisco, per un cancro esofageo.

Tre mesi dopo la sua morte il MoMa di New York le dedica una retrospettiva ed è il primo contributo fatto a una fotografa donna.

Arte al femminile (427)

Anche la fotografia rappresenta una forma d’arte estremamente interessante. Solo pochi anni prima della scomparsa, la fotografa statunitense Vivian Maier vede riconosciuta la propria attività artistica. La sua arte fotografica è particolarmente interessante.

Vivian Maier nasce a New York nel 1926. Il padre, Charles, impiegato in una drogheria, è americano, ma discende da una famiglia di emigrati austriaci, mentre la madre, Maria Jaussaud, è francese, figlia anche lei di emigrati. Dal matrimonio nascono due figli: William Charles e Vivian. I genitori si separano nel 1929: il fratello William viene affidato ai nonni paterni, mentre Vivian rimane con la madre, che si stabilisce presso un’amica, Jeanne Bertrand. Quest’ultima è una fotografa professionista, che trasmette a Maria e alla figlia la passione per la fotografia.

Dai sei-sette anni fino ai dodici Vivian è in Francia con la mamma, tornata nel paese natale, presso una zia single e senza figli: Vivian frequenta la scuola del paese.

Nel 1938 Maria e Vivian tornano negli Stati Uniti, a New York. Non avendo seguito studi regolari Vivian lavora come commessa e operaia.

Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1950-1951, Vivian torna in Francia per mettere all’asta una proprietà lasciatale in eredità dalla prozia. Nel 1951 è di nuovo a New York e compra una macchina fotografica professionale, una Rolleiflex, macchina fotografica di fabbricazione tedesca di alta qualità, prodotta dal 1928. Viaggia nel nord America e fa fotografie di notevole fattura. In seguito assume il lavoro di bambinaia presso una famiglia di Southampton.

Nel 1956 si stabilisce definitivamente a Chicago, dove viene assunta dai coniugi Gensburg, per prendersi cura dei loro figli.

Continua a coltivare la passione per la fotografia e sviluppa da sola le proprie foto, utilizzando il bagno personale come camera oscura. Rappresenta la vita quotidiana nelle strade cittadine: i bambini, i lavoratori, persone benestanti e miserabili, mendicanti ed emarginati…Coglie momenti di vita di strada. Preso un periodo di aspettativa come baby-sitter, viaggia per 6 mesi intorno al mondo, visitando le Filippine, la Thailandia, l’India, lo Yemen, l’Egitto, l’Italia e la Francia, sempre fotografando il più possibile.

Passa alla fotografia a colori con diverse fotocamere, ma non sempre riesce a sviluppare i rullini, per problemi economici.

Nel 1975 muore la madre e Vivian si trova sola a 49 anni. Continua a lavorare come bambinaia e ovviamente a fotografare.

Con l’età avanzata si trova in gravi difficoltà economiche, ma viene aiutata dalla famiglia Gensburg, con cui è rimasta in contatto. Pur non amando il lavoro di bambinaia, riusciva ad avere bei rapporto con i bambini, che le si affezionavano molto. Molti la ricordano a distanza di anni.

Muore nel 2009 in una casa di cura di Highland Park.

Vivian conservava i propri averi in un box in affitto, non avendo una propria abitazione. Durante gli ultimi suoi anni di vita, non avendo pagato i canoni di affitto, il box viene venduto all’asta. Nel 2007 John Maloof, appassionato di fotografia, volendo fare una ricerca sul suo quartiere, (Portage Park, di Chicago), avendo poco materiale iconografico a disposizione, decide di comprare in blocco a un’asta, per 380 dollari, il contenuto di un box pieno zeppo degli oggetti più disparati. Si tratta del box in cui Vivian ha raccolto un po’ di tutto e una cassa contenente centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare. Maloof si ritrova a essere così unico erede e curatore di un vasto archivio fotografico: oltre 100.000 negativi di foto, molti filmati in Super-8, registrazioni su audiocassette, ritagli di giornali…

Maloof sviluppa e stampa alcune di queste foto e le pubblica, ottenendo molto interesse di pubblico. In seguito a questo decide di sviluppare tutti i rullini e conoscere l’autrice delle foto, che però nel frattempo è morta. In seguito Maloof s’impegna a rendere nota Vivian e a valorizzare il suo operato.

“Chi era la sconosciuta che per tutta la vita ha scattato migliaia di fotografie in ogni istante del proprio tempo libero sviluppando solo poche immagini? Una donna “coraggiosa, eccentrica, paradossale, misteriosa, riservata, segreta”, non senza qualche aspetto oscuro (forse oppressa dal proprio carico biografico ed emotivo a causa di un trauma infantile?), rivelano le interviste di coloro a cui Vivian aveva fatto da nanny. Un’anima inquieta con l’immancabile Rolleiflex appesa al collo e, racconta lo stesso Maloof, affetta da una mania ossessiva che la spingeva ad accumulare ogni tipo di oggetto, come se fossero “ricordi e stralci di momenti”: gioielli, scarpe, cappelli, ricevute, biglietti.”

La prima mostra sul lavoro di Vivian si tiene nel 2010.

Su di lei è stato realizzato il docufilm: “Alla ricerca di Vivian Maier “.

Molte le mostre a lei dedicate, organizzate in varie città. In Italia sono state fatte importanti esposizioni negli anni 2019-2020: una a Trieste nel “Magazzino delle idee”, una a Torino al Castello di Stupinigi e un’altra  presso la galleria Forma Meravigli di Milano.

Vivian era una persona solitaria e la fotografia era il suo modo di mettersi a contatto con il mondo. Personaggio enigmatico, non voleva svelarsi.

I suoi autoritratti vedono la sua figura quasi sempre come velata o “disturbata” da altri elementi.

1954, New York, NY