Arte al femminile (605)

L’arte si collega sempre alla società e rispecchia i vari periodo storici. C’è chi è più legato a una visione accademica e chi si immerge nel mondo in modo attivo, come questa grande artista tedesca.

Khate Kollowitz

Nasce nel 1867 a Königsberg, quinta di otto figli (tre muoiono in tenera età) nati dal matrimonio del mastro muratore Carl Schmidt con Katharina Rupp, figlia di un predicatore della chiesa libera, nonché deputato alla Paulskirche. La sua è una famiglia progressista, con un padre appassionato di letteratura, un fratello impegnato politicamente e un nonno dalla profonda etica.

Nel 1881 viene assecondata dal padre nella sua aspirazione artistica e segue lezioni di pittura e incisione su rame. La si vede nei vicoli della sua città con un taccuino, per ritrarre contadini, operai e marinai al lavoro, con un’attenzione particolare alla vita degli “ultimi”.

Trasferitasi a Berlino all’età di 17 anni, s’iscrive a una scuola d’arte femminile indirizzandosi al disegno piuttosto che alla pittura.

Si fidanza con Karl Kollwitz, studente in medicina, che frequenta lo stesso circolo socialista del fratello Konrad. Nel 1889, spostatasi a Monaco, si rende conto che la sua strada è quella della grafica. L’illustrazione di una scena del romanzo Germinal di Emile Zola ottiene un riconoscimento che la riempie di soddisfazione e di nuove prospettive. Schiller e Goethe sono le sue letture preferite, Freiligrath (poeta lirico tedesco) e il naturalismo le sue fonti d’ispirazione.

Nel 1891 sposa Karl, che ha trovato impiego come medico statale, con lui vivrà a Berlino fino alla sua morte (19 giugno 1940) dando alla luce due figli: Hans nel 1892 e Peter nel 1896. Il marito cura operai e contadini: i due sono uniti dall’impegno sociale.

Produce litografie e acqueforti ispirandosi a opere drammatiche. Viene proposta per una medaglia d’oro, ma l’imperatore si rifiuta di concederla a una donna.

Tra il 1901 e il 1908 pone mano al ciclo intitolato “Guerra dei contadini”, un tema storico, interpretato come fallimentare tentativo rivoluzionario del popolo tedesco. Si ispira alle rivolte nel sud della Germania degli anni Venti del Cinquecento.

Nel frattempo compie alcuni viaggi: a Parigi, dove conosce Rodin e impara a scolpire, e in Italia, a seguito della vincita del premio “Villa-Romana” che le garantisce per un anno la permanenza in uno studio fiorentino.

Nel 1914 Khate inizialmente sostiene una guerra ritenuta di aggressione e di grande pericolo per la Germania, così da impegnarsi subito nella Commissione Ausiliaria Femminile. Il figlio minore Peter, di 18 anni, osteggiato dal padre e non bloccato dalla madre, decide di andare in guerra volontario, ma muore sul fronte occidentale. La perdita del figlio e la morte di tanti giovani come lui gettano Käthe nella disperazione più profonda e la inducono a rivedere le sue idee su guerra, patria e nazione e ad aderire al pacifismo: ha un periodo di crisi e di stanchezza che le impongono una lunga inattività.

Nel 1917, in occasione del suo cinquantesimo compleanno, l’esposizione presso la galleria di Paul Cassier di 150 opere, nonché le numerose mostre allestite in tutta la Germania la consacrano come artista.

Nel 1919, all’epoca della Repubblica di Weimar, entra all’Accademia delle Arti di Prussia. È la prima donna ad essere nominata membro di una così prestigiosa istituzione e a ricevere contemporaneamente il titolo di Professore. Nel 1928 ottiene la direzione della specializzazione in grafica.

Si dedica alla xilografia (tecnica d’incisione su matrice di legno), con un’intensa produzione a tema, rivolgendo sempre attenzione alle problematiche sociali.

Nel 1932 porta a termine il monumento dedicato al figlio morto. Si tratta di due enormi statue in granito, rappresentanti un padre e una madre chiusi nel loro dolore, che verranno poste nel cimitero militare di Roggevelde in Belgio.

Nel 1933, due settimane dopo la nomina di Hitler a cancelliere del Reich, a seguito della sottoscrizione del Dringender Appel stilato da socialdemocratici, socialisti e pacifisti in favore dell’unità delle sinistre, Käthe è costretta a lasciare l’Accademia delle Arti di Prussia e a subire le prime persecuzioni e perquisizioni. Per sottrarsi a un possibile arresto, sta per alcune settimane a Marienbad (Cecoslovacchia), ma poi decide di rimanere in Germania e torna a Berlino. Poiché non è ebrea e nemmeno esponente dell’arte cosiddetta “degenerata”, viene lasciata lavorare a condizione che le sue opere non siano esposte. Inizia un lungo “esilio interno” che la vede esclusa da tutte le manifestazioni culturali: i suoi lavori vengono rimossi dalle sale e dalle gallerie pubbliche e private, le cartoline, riproducenti temi della sua attività grafica, sequestrate. Kathe, nonostante le difficoltà, continua a lavorare.

La sua fama a livello nazionale e internazionale la salvano dalla deportazione in un campo di concentramento, per le sue idee socialiste e pacifiste.

Dal 1934 al 1935 produce il suo ultimo ciclo di litografie: “Della morte”.

Nel 1939 la Germania è di nuovo in guerra e Käthe è ormai è vecchia e stanca; disegna tuttavia ancora molto e attende a piccole sculture sul tema che più la coinvolge: quello della maternità. Le sue opere assumono un intento antimilitarista nel corso della seconda guerra mondiale, in cui perde il nipote Peter.

Nel 1943 si trasferisce a Nordhausen presso la ritrattista Margret Boening. Il 25 novembre la casa a Berlino, dove ha vissuto dal 1891, anno del matrimonio con Karl, viene distrutta dalle bombe e con essa anche molte sue opere e lastre di pietra. Verso la fine di luglio del 1945 si sposta a Moritzburg, nei pressi di Dresda, dove trascorre gli ultimi anni in profonda solitudine, alleviata dagli scambi epistolari con parenti e amici e dalla lettura di Goethe.

La perdita progressiva della vista le impedisce di continuare a disegnare.

Muore nel 1945.

La sua adesione al socialismo e l’attenzione per le classi operaie più disagiate, la porta a produrre opere di grande intensità e drammaticità.

Nel 1986 viene dedicato a lei il Museo Kathe Kollowitz, a Berlino.

“Non voglio morire… finché non avrò sfruttato fedelmente il massimo del mio talento e coltivato il seme che è stato posto in me finché non sarà cresciuto l’ultimo rametto.” (Käthe Kollwitz)

Arte al femminile (604)

Diverse artiste prendono parte alla lotta contro il nazifascismo, tra questi Genni, come viene chiamata questa scultrice tedesca.

Jenny Wiegmann Mucchi.

Nasce a Berlino nel 1895.

In Germania le donne vengono accolte nell’Accademia Statale di Belle Arti solo a partire dal 1919, per cui devono rivolgersi a istituti privati e soprattutto per chi, come Jenny ama la scultura, è sempre difficoltoso trovare il materiale e gli spazi adatti.

Si forma tra Monaco e Berlino, frequentando istituzioni private.

In seguito studia presso l’Istituto Levin-Funke, scuola di pittura e scultura aperta a entrambi i sessi, dove si cominciano ad ammettere anche le donne agli studi di nudo. Dal 1919 al 1923 segue un corso di intaglio del legno.

Il suo stile presenta inizialmente un incrocio tra forma classica e primitivismo, ossia tendenza a strutture più stilizzate e moderne. Partecipa a diverse mostre.

Siamo in un periodo di guerra e fermento politico, per cui Jenny affianca il lavoro artistico all’impegno politico.

Nel 1918 partecipa ai moti rivoluzionari che portano alla nascita della Repubblica di Weimar, che introduce il suffragio universale tramite la Costituzione e sembra aprire a un rinnovamento sociale, presto bloccato da pressioni economiche e politiche.

Nel 1920 sposa lo scultore e compagno di studi, Berthold Müller. I due si convertono al cattolicesimo e fanno un viaggio in Italia. Nel soggiorno di Roma la scultrice ottiene alcune commissioni dal Vaticano. A Ravenna rimane profondamente colpita dallo splendore dei mosaici.

Quando gli eventi precipitano, con Hitler al potere, Jenny si trasferisce a Parigi, dove frequenta il gruppo degli artisti italiani.

Nel 1937 ottiene una medaglia d’oro al Salone Mondiale di Parigi, dove Picasso presenta Guernica.

Nel frattempo si separa dal marito.

Nel 1925 ha conosciuto Gabriele Mucchi, architetto e pittore, con cui condivide esperienze artistiche e politiche.

Nel 1933 i due si sposano e si trasferiscono a Milano, dove hanno la possibilità di allargare la conoscenza di intellettuali e artisti. Espongono entrambi alla V Triennale di Milano.

Jenny si avvicina agli ambienti di Corrente, movimento artistico vicino all’omonima rivista fondata da Ernesto Treccani. Questa rivista nasce inizialmente con il nome di Vita giovanile, con scadenza mensile, poi diventa il quindicinale Corrente di Vita giovanile, per poi cambiare definitivamente il nome in Corrente nel 1938 a Milano. Ben presto essa assume la funzione di organo milanese-fiorentino dell’opposizione di alcuni intellettuali al regime fascista, dando nome anche a un movimento artistico che non si riconosce nell’ufficialità del tempo, che combatte contro la cultura asservita alla ragion di stato. Gli artisti del gruppo si orientano verso tematiche e forme del linguaggio espressionista, guardando anche ai grandi modelli quali Van Gogh, Ensor, Picasso…

Nel 1940 la rivista è soppressa per diretto ordine di Mussolini.

Durante la seconda guerra mondiale Jenny è impegnata nella Resistenza come staffetta ed è attiva nella difesa degli ebrei. Il marito sale invece in montagna, in Val d’Ossola, per unirsi ai partigiani.

Nel secondo dopoguerra collabora con vari architetti, dando un’impronta personale. Non smette mai di coltivare la ricerca artistica insieme all’impegno politico-sociale, attiva per la pace e contro ogni forma di sopraffazione. Testimonia con l’arte la lotta della Resistenza, perché non vada dimenticata.

La sua lotta si concentra contro il nuovo nemico: la rimozione storica. La sua opera è caratterizzata dall’impegno politico, come dimostrano i titoli di alcune opere: il Ritratto di Rosa Luxemburg, terracotta del 1956, Fuoco in Algeria, Donne algerine, Anno 1965 e II grido, due sculture dedicate al dramma vietnamita. A Milano, dove insegna a una scuola d’arte la tecnica del lavoro a sbalzo su metalli, esegue oggetti preziosi.

Particolarmente espressive le cinque figure per il Monumento dei partigiani caduti, di Bologna. 

Trascorre gli ultimi anni tra Berlino e Milano, alla ricerca delle proprie radici, nella Germania dell’est.

Muore a Berlino nel 1969.

Nel 1983 suoi lavori sono esposti nella mostra “Esistere come donna” al Palazzo Reale di Milano.

Nella sua arte le donne sono spesso protagoniste, rappresentate nella lotta per sopravvivere, per fronteggiare emergenze di ogni tipo (fame, violenza, solitudine, sfruttamento).

Donna particolare, affascinante e schiva, apparentemente fragile, ma dalla volontà di ferro, viene giustamente ritenuta figura importante dell’avanguardia artistica del ‘900.

Arte al femminile (603)

Ci sono artiste che hanno cercato faticosamente un proprio stile e hanno rifiutato modelli predefiniti.

Romaine Brooks (Beatrice Romaine Goddard) nasce a Roma nel 1874 da una ricca famiglia americana, momentaneamente in città, da cui il nome datole. Il padre, Henry Goddard, è un predicatore famoso, la madre, Ella Watermann, donna bellissima, appartiene a una dinastia di ricchi affaristi.

Romaine ha un’infanzia travagliata, per la separazione dei genitori, a causa dell’abbandono da parte del padre alcolizzato,  e vive con la madre in Europa e negli Stati Uniti, insieme ai fratelli Henry e Maya. Henry ha problemi psichiatrici, per cui necessita di continue attenzioni. La madre, stravagante e dispotica, le impedisce di dedicarsi al disegno sua passione. Sino alla maturità Romaine deve sopportare il dispotismo materno, tra collegi, incomprensioni e scenate.

Dopo aver raggiunto l’età adulta fugge e passa la maggior parte della propria vita a Parigi, alternandola con alcuni soggiorni in Italia, a Capri e a Roma, dove s’iscrive alla Scuola Nazionale d’Arte. Nel 1897 partorisce una bambina, che abbandona. In seguito subisce molestie sessuali, cui si ribella e da cui fugge.

Nel 1901, morti la madre e i fratelli, si trova erede di una cospicua fortuna.

Nel 1903 sposa il pianista John Ellington Brooks, da cui si separa un anno dopo, mantenendo apparentemente la condizione, ufficialmente rispettabile, di donna sposata, con un accordo stipulato con il marito, cui corrisponde una rendita mensile per questo. Lui è dichiaratamente omosessuale, mentre lei scopre la propria bisessualità.

Una volta lasciato il marito ha varie relazioni amorose, tra cui una con lo scrittore Gabriele D’Annunzio. Quest’ultimo la soprannomina “cinerina”, per il prevalere dei toni grigi nella sua tavolozza cromatica. I due ritratti che Romaine fa a D’Annunzio (uno dei quali conservato al Vittoriale) sono tra i più famosi fatti a questo scrittore.

Con Ida Rubinstein, stella dei balletti russi di Serge Diaghilev  e Gabriele D’Annunzio intreccia un complicato triangolo amoroso.

All’inizio della sua carriera adotta una tavolozza dai colori tenui, principalmente nero, bianco, sfumature di grigio, a volte con riflessi ocra, marrone o rosso.

La sua prima mostra, presso la prestigiosa Galleria Durand-Ruel di Parigi, ottiene notevole interesse.

Lavorando a Parigi in un momento in cui Pablo Picasso e altri artisti sfidano gli approcci tradizionali all’arte, lei rimane indipendente e ricerca un proprio linguaggio.

Il rapporto più duraturo e più stabile l’ha con la scrittrice Natalie Clifford Barney, incontrata nel 1915 a Parigi. Nonostante i vari innamoramenti, Romaine rimane profondamente gelosa della propria solitudine.

Durante la prima guerra mondiale si attiva per raccogliere fondi per la Croce Rossa e altre organizzazioni coinvolte nello sforzo bellico. Ottiene per questo la Legione d’Onore.

Negli anni ’30 inizia a scrivere un manoscritto autobiografico, intitolato No Pleasant Memories, con illustrazioni fantasiose. Non lo pubblicherà mai.

Nel 1937 si trasferisce nella Villa Sant’Agnese, vicino a Firenze, dove viene raggiunta dalla Barney, in fuga dalla Francia invasa dai. Tedeschi.

In seguito le due si separano e Romaine rimane in Italia. Il rapporto rimane sino alla fine di Romaine.

Muore a Nizza (Francia) nel 1970.

Romaine è una figura di spicco di una controcultura artistica di europei dell’alta borghesia ed espatriati americani, svincolati dai canoni ufficiali. Nei suoi dipinti rappresenta donne di aspetto androgino, sfidando le idee convenzionali su come le donne devono apparire e comportarsi in quel periodo. Utilizza il ritratto e l’autoritratto per esprimere la propria indipendenza e il rifiuto a conformarsi alle aspettative sociali.

Nel 2016 le è stata dedicata una mostra presso Il Museo d’arte Americano Smithsonian. Nello stesso anno vi è la prima mostra in assoluto dedicata a lei in Italia, presso Palazzo Fortuny a Venezia.

I disegni, che farà soprattutto nell’ultima parte della vita, restano lo specchio più profondo della sua anima fondamentalmente tragica e solitaria.

Arte al femminile (602)

Elisabeth Chaplin nasce in Francia, a Fontainebleau (nota per l’omonimo castello), nel 1890.

La sua è una famiglia di artisti, perché è nipote del pittore e incisore Charles Chaplin, mentre la mamma è la scultrice e poetessa Marguerite Bavier- Chaufour.

Con la famiglia si stabilisce in Italia, prima in Piemonte, poi in Liguria e infine a Roma dal 1906.

A quest’ultimo periodo risalgono i suoi primi dipinti. La sua è una formazione da autodidatta.

A Firenze frequenta gli studi di alcuni pittori, come Giovanni Fattori. Fa inoltre numerose copie dei quadri della Galleria degli Uffizi, per impratichirsi maggiormente nella tecnica pittorica.

Si avvicina al post-impressionismo e ai pittori nabis, come vengono chiamati i pittori dell’avanguardia postimpressionista.

Il termine nabis (dall’ebraico “profeti”) viene dato dal poeta Cazalis a un gruppo di giovani artisti, organizzatosi a Parigi nel 1888 sotto l’influsso di Paul Gauguin. Agli intenti naturalistici degli impressionisti, il gruppo contrappone una ricerca che valorizza l’aspetto decorativo, l’armonia dei colori e delle composizioni libere. I caratteri evocativi e poetici dei dipinti, che rappresentano le emozioni attraverso l’uso di colori puri e forme bidimensionali, anticipano movimenti successivi, come quello dei fauves (semplificazione delle forme- abolizione della prospettiva e del chiaroscuro- uso di colori vivaci e innaturali- uso di colori puri, spesso premuti direttamente dal tubetto- linee di contorno marcate).

Dal 1910 Elisabeth si dedica a tele di grande formato, con forme sintetiche e grande attenzione al colore.

Inizia a presentarsi alle grandi esposizioni nazionali: la Promotrice Fiorentina (1912), la Secessione Romana (1913) e la Biennale di Venezia (1914).

Nel 1916 la famiglia si stabilisce definitivamente a Roma. Il suo successo si consolida: espone alla Biennale Veneziana del 1920 e al Salon di Parigi. Riscuote successo di pubblico e di critica.

Nel 1922 lascia Roma e fino alla fine della seconda guerra mondiale vive a Parigi, dove ottiene importanti commissioni pubbliche, per grandi murali prima nella Cappella di Notre-Dame du Salut (distrutta nel 1980) e poi nella Chiesa di Saint-Esprit.

Nel 1937 ottiene una medaglia d’oro nell’Esposizione Internazionale di Parigi e nel 1938 la Legione d’Onore.

Negli anni successivi sviluppa uno stile più decorativo, con superfici ingigantite e riempite di figure, colori smaltati e massicci inserti floreali. Accanto a queste opere di grande formato continua sempre a produrre anche opere da cavalletto, spesso dedicate a soggetti tratti dalla vita quotidiana e familiare.

Nel secondo dopoguerra torna in Italia e si stabilisce definitivamente a Fiesole.

Numerose le mostre personali a Firenze, soprattutto a Palazzo Strozzi.

Muore nel 1982 a Fiesole.

Sue opere si trovano presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e la Galleria d’Arte Moderna di Firenze. I soggetti preferiti sono autoritratti, paesaggi e ambienti familiari. Dimostra affezione verso la vita domestica e coloro che la caratterizzano. I suoi quadri spesso trasmettono dolcezza e una malinconia infinita.

Elisabeth è l’artista donna con il maggior numero di opere conservate nelle collezioni fiorentine. La Galleria di Palazzo Pitti raccoglie circa 700 opere di questa straordinaria artista, molte delle quali purtroppo non visibili al pubblico.

Nel 1996 esce un ricco volume monografico su di lei, a cura del critico d’arte Giuliano Serafini.

Nel 2021 le è stata dedicata una mostra nel Comune di Santa Maria Tiberina (Perugia).

Arte al femminile (601)

Roma, soprattutto nel periodo tra i due conflitti mondiali, diventa polo attrattivo per molte artiste. Come ho già avuto modo di osservare, a differenza di Parigi, nella nostra capitale contano molto i salotti e i circoli artistici, come luoghi in cui farsi conoscere ed apprezzare.

Lidia Franketti (Lidija Aleksandrovna Trenina) nasce a Mosca nel 1899.

Poco si sa della sua infanzia e della sua educazione artistica.

A 19 anni insegna in un Istituto Tecnico a Niznij Novgorod.

Dal 1926 al 1928 è a Mosca per studiare all’Istituto Superiore di Tecniche Artistiche.

Conosce e sposa il pittore Vladimir Feliksovic.

Mentre prosegue gli studi pittorici e scultorei, lavora come stenografa per mantenersi. Si diploma nel 1932.

Nello stesso anno, in seguito ai rivolgimenti in Russia, viene espulsa dal paese e con il marito ripara a Parigi.

Qui entra in contatto con molti artisti italiani. Espone al Salon d’Automne nel 1933 e al Salon de Tuilleries.

Nel 1934 si trasferisce a Roma e apre una scuola presso Villa Strohl Fern. Questa Villa, il cui parco confina con quello della più famosa Villa Borghese, era stata edificata da un personaggio particolare, Alfred Wilhelm Strohl, letterato, musicista, pittore, scultore e poeta originario dell’Alto Reno (Alsazia- Francia).

In tre zone distinte del parco il proprietario aveva dato il via alla costruzione di un certo numero di studi d’artista, che con atto di mecenatismo affittava a un canone irrisorio agli artisti che necessitavano di uno spazio di lavoro. In uno di questi atelier lavora Lidia.

Si aggiudica una medaglia d’oro al Concorso per il Busto della Regina (attualmente presso il Municipio di Napoli). Espone una serie di lavori alla Mostra degli Italiani in Olanda.

Figura in tutte le mostre Sindacali del Lazio. Nel 1936 partecipa alla Biennale di Venezia ed è presente alla III Quadriennale romana.

Nel 1937 riceve la medaglia d’oro al Padiglione Italiano della Mostra Internazionale di Parigi.

Negli anni successivi, nonostante i riconoscimenti ricevuti e una fama ormai attestata, vive un momento di difficoltà economica. Cerca di intensificare l’attività di ritrattista.

Scultrice, pittrice, ceramista e scenografa, dal 1940 al 1950 insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Roma.

La scenografia diventa un’attività primaria negli anni seguenti, collaborando con il Teatro Odeon di Milano.

Realizza scene per il Maggio Musicale Fiorentino e il Metropolitan di New York.

Muore a Roma nel 1980.

Le sue sculture dimostrano attenta osservazione dal vero e interesse per l’introspezione psicologia dei soggetti.

Nel 2017 una delle sue opere (difficilmente recuperabili) è stata esposta al Museo di Anticoli Corrado, nell’ambito di un’esposizione riguardante opere degli anni Trenta e Quaranta.

Il Civico Museo di Arte Moderna e Contemporanea si trova nel palazzetto Brancaccio del borgo di Anticoli Corrado, all’interno del territorio della città metropolitana di Roma.

La scultura esposta è il ritratto della Marchesa Pierina Navarra-Viggiani (1941).

Arte al femminile (600)

L’eclettismo caratterizza questa artista poco conosciuta. Anche il ricamo, considerato spesso quasi passatempo femminile, può diventare importante attività artistica

Maria Morino Savinio nasce a Roma nel 1899.

Sin da giovanissima si dedica all’attività del ricamo, ma inizia la carriera di attrice drammatica, che considera la propria professione ufficiale. Diplomata con Silvio D’Amico all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, nel 1923 segue Eleonora Duse nella sua tournée in America.

Entra nel Teatro d’Arte di Roma, dove conosce Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea Francesco Alberto De Chirico, fratello del pittore Giorgio. I due si sposano nel 1926.

Con la compagnia di Luigi Pirandello gira per le capitali d’ Europa. A Parigi si stabilisce con il marito per un certo periodo.

Incomincia a comporre “quadri in lana” e realizza il suo primo ricamo su tela, da un disegno realizzato dal cognato Giorgio De Chirico. Di li a poco avrebbe riprodotto in arazzo il primo dipinto del marito: L‘Idillio marino (1927), la cui traccia è disegnata sulla tela da Savinio stesso: quando l’opera è compiuta viene esposta con la dicitura «Alberto Savinio, ricamo eseguito da Maria Savinio».

Il ricamo è l’attività di un periodo di difficoltà economiche per i due coniugi. Il marito ha iniziato l’attività come pittore professionista e deve farsi conoscere. Quando Alberto Savinio comincerà ad avere successo, Maria smetterà di ricamare e si dedicherà ai figli.

Nel 1928 nasce la figlia Angelica.

Nel 1933 i Savinio si trasferiscono a Torino, si spostano poi a Milano e dal 1937 sono definitivamente a Roma.

Nel frattempo, nel 1934, nasce il figlio Ruggero.

Alberto Savinio muore improvvisamente a Roma nel 1952.

Maria, dopo un momento di sconforto, riprende l’attività artistica nel 1954.

Mettendo insieme tutto il lavoro fatto negli anni precedenti, inaugura la sua prima mostra di ricami, tutti fedelmente derivati da dipinti di De Chirico e soprattutto del marito, «un altro modo per stargli vicino», scrive.

Attraverso una fitta trama di fili di lana e sete artificiali, sapientemente mescolati tra loro, Maria restituisce fedelmente le tinte della tavolozza dell’artista, ricreandone gli effetti di luci e di ombre, così come le sfumature e i volumi, rispettando infine anche le dimensioni dell’opera originale, una vera e propria copia conforme intessuta su tela.

Espone a Roma, Milano e Venezia.

Muore a Roma nel 1981.

Arte al femminile (599)

Katy Castellucci è stata figura di rilievo nel panorama artistico italiano della prima metà del Novecento.

Nasce nel 1905 a Laglio, sul lago di Como. Il padre Ezio è raffinato illustratore e pittore di tradizione accademica. La madre, Teresa Gautieri, ha nobili origini provenzali.

La famiglia si trasferisce a Roma, che offre maggiori possibilità di lavoro per il padre e qui Katy frequenta il Liceo Artistico.

Fin da giovanissima dimostra talento artistico e predisposizione per la danza.

Nel 1926 si reca a Parigi con la sorella Guenda e vi rimane due anni. Nel 1927 prende parte alla Pantomima futurista di Enrico Prampolini al Théatre de la Madeleine.

Tornata a Roma, frequenta gli artisti della Scuola Romana e ha una relazione tormentata con uno degli esponenti, Alberto Ziveri. Questa Scuola vuole essere un’alternativa alle espressioni artistiche di chiara propaganda fascista. Ricerca, nel legame profondo con la città di Roma e l’antichità, una dimensione più intima e personale, con forte attenzione alle ricerche cromatiche, alle tonalità del colore.

Nel 1932 espone per la prima volta alla III Sindacale, ma la mostra veramente importante è la prima personale alla Galleria della Cometa (aperta dalla contessa Mimì Pecci Blunt) nel 1936, assieme ad Adriana Pincherle (v.n.446), sorella dello scrittore Alberto Moravia e sua amica di gioventù.

Viene notata dalla critica per l’intensità e la poesia della sua pittura.

Negli anni del secondo dopoguerra si dedica intensamente all’insegnamento, prima a Modena poi all’Istituto di Arte Applicata di Roma, dove fonda la sezione di disegno su tessuto, dalla tecnica batik alla serigrafia. Si dedica anche alla scenografia e ai costumi teatrali. Lavora per il Maggio Musicale Fiorentino e per il Teatro delle Arti di Roma.

Si presenta assieme al padre alla VI Quadriennale di Roma del 1951 e nello stesso anno fa una mostra personale alla Galleria Lo Zodiaco. I suoi quadri in questo periodo hanno un’impronta neocubista, collegandosi alle tendenze artistiche europee.

Rinuncia poi a partecipare alle mostre cui è invitata, dedicandosi a una pittura astratta sperimentale, senza intenti espositivi. 

Molti i disegni che continua a fare, autonomi dalla pittura, tutti di grande qualità e in cui evidenzia la vocazione figurativa.

Muore a Roma nel 1985.

Nel 2021 le è stata dedicata una mostra a Villa Torlonia (Casino dei Principi), a Roma, con opere raccolte e catalogate dal nipote Alessandro Pagliero, figlio della sorella Guenda: autoritratti di straordinaria modernità, ritratti di amici, di parenti, di intellettuali, animali e nudi molto sensuali. Una serie di vedute di Roma ad acquarello e china mostra il talento nel disegno, nella capacità di riprodurre volumi con pochissimi tratti. Gli autoritratti sono vari e sintetizzano gli aspetti del carattere dell’artista, dalla malinconia alla volontà di nascondersi dietro travestimenti e trucchi, la sua inquietudine. Le immagini familiari sono invece cariche di dolcezza. Le sue pennellate sono dense, accentuati i rapporti tra luci e ombre, incisivo il collegamento tra figure e ambiente.

Quando affronta la fase neocubista procede in modo originale, con colori essenziali e tratti netti.

Arte al femminile (598)

Ci sono forme artistiche considerate “funzionali”, ma che hanno invece antiche tradizioni e grande valore. La scenografia è una di queste e Lila de Nobili ne ha fatto un’espressione artistica straordinaria.

Lila De Nobili nasce a Castagnola, frazione di Lugano, in Svizzera, nel 1916.

La sua è una famiglia di nobile lignaggio, perché il padre, marchese Prospero De Nobili, è esponente di un’aristocratica stirpe di Vezzano in Liguria. La madre, Dola Vertès, invece appartiene a una famiglia ebrea ungherese. Il padre è un uomo d’affari e tra le altre attività ha la produzione di sigari toscani da esportare all’estero. Lila trascorre l’adolescenza seguendo spesso il papà nei suoi giri d’affari.

Parla cinque lingue e ha una buona preparazione culturale, con profondo interesse per l’arte.  

Studia Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Roma.

Nel 1943 è a Parigi, dove frequenta l’Académie Ranson e inizialmente lavora come disegnatrice di moda e decoratrice d’interni.

Inizia in seguito l’attività di illustratrice per i grandi stilisti francesi e riviste di moda prestigiose, come Vogue Paris.

Allestisce vetrine per marchi prestigiosi come Hermès.

Attraversa un periodo di difficoltà economiche e familiari, a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale.

Passata alla scenografia nel 1947, diventa famosa come costumista. Lavora per i registi celebri del tempo: Luchino Visconti, Franco Zeffirelli, Raymond Rouleau, per citarne alcuni.

Realizza anche costumi memorabili per opere liriche, soprattutto per la Scala di Milano.

Veste personaggi di rilievo, come Maria Callas, Ingrid Bergman, Edith Piaf, Simone Signoret, Margot Fonteyn…

Nel 1951 è a New York, per la messa in scena di uno spettacolo con Audrey Hepburn, una commedia di incredibile successo, con ben 200 repliche, per la quale Lila si occupa di scene e costumi. Dipinge metri e metri di scenografia da sola, attenta a tutti i particolari.

Ogni volta che viene chiamata per realizzare una scenografia studia in biblioteca i periodi cui deve riferirsi, con accurati approfondimenti filologici.

Per ben cinque volte prende parte al Festival dei Due mondi di Spoleto, luogo che ama in modo particolare.

Alla fine degli anni Sessanta si dedica esclusivamente alla pittura, distinguendosi per la pennellata leggera, dalle molte sfumature. Ha con sé sempre un taccuino, per ritrarre ogni soggetto che catturi la sua attenzione: scene cittadine, animali, sprazzi di cielo, passanti…

Trascorre gli ultimi anni con difficoltà motorie e sordo-cieca in seguito a un ictus, ma sino alla fine mantiene contatti con l’ambiente artistico parigino.

Muore nel 2002 a Parigi.

Viene considerata l’ultima grande protagonista della scenografia dipinta, una vera maestra in questo campo. Ha lasciato un segno indelebile nella storia dello spettacolo e della scenografia.

Genio poliedrico e di grande cultura, si occupa del teatro nel suo insieme: parole, scene, musica e pittura, curando con uno studio assiduo tutti i minimi particolari.

Arte al femminile (597)

Ancora pittura, ancora una pittrice italiana del ‘900…

Eva Quajotto nasce a Mantova nel 1903.

Inizia da ragazza ad appassionarsi alla pittura, frequentando lo studio di Pietro Focardi, pittore che segue la tecnica divisionistica in modo spontaneo, verista. Il Divisionismo è un fenomeno artistico italiano, nato alla fine dell’800, caratterizzato dalla separazione dei colori in singoli punti o linee, che interagiscono fra loro, garantendo grande luminosità. Il Verismo invece si concentra sullo studio della realtà e l’osservazione del vero, scegliendo colori conformi alla natura. I soggetti sono tratti dalla vita quotidiana. (v. il seguente quadro del pittore)

Queste tecniche saranno riviste da Eva in modo personale.

Nel 1928 si trasferisce a Roma, entrando in contatto con la Società degli Amatori e Cultori. Nella capitale insegna Disegno e Storia dell’Arte, impostando la propria attività di pittrice professionista.

Diventa amica e ritrattista di letterati e artisti, quali Marinetti, Aleramo, Alvaro, Deledda, Palazzeschi e Moravia.

Partecipa giovanissima alla Biennale di Venezia.

Nel 1930 fa uno mostra personale a Roma, esponendo 45 dipinti.

Durante gli anni Trenta partecipa alle maggiori rassegne nazionali, alle Biennali e Quadriennali.

Cerca di farsi conoscere anche all’estero, a New York, Baltimora, Syracuse, ottenendo apprezzamenti da parte della critica.

Nel 1948, su incarico del Ministero della Cultura, fa un viaggio di studio in Germania, Belgio, Olanda. Collabora con molte riviste e periodici: La Stirpe, La fiera letteraria, Noi donne.

Continua a esporre e nel 1950 pubblica un romanzo di carattere autobiografico, Bestie e noi. Quest’opera manifesta il suo grande amore per gli animali.

Scrive racconti, testi storico-artistici, recensioni e fa illustrazioni per giornali romani. Si interessa di sceneggiatura.

Alcuni suoi quadri sono stati acquistati dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma.

Muore a Vallerano (Viterbo) nel 1952.

Arte al femminile (596)

Rimanendo sempre nell’ambito delle artiste italiane del primo Novecento, si trovano personaggi completamente dimenticati, che si sono distinti in vario modo.

Anche l’arte dell’incisione vede poche artiste che vi si cimentino, in quando dominante la presenza maschile. Ciò non toglie che vi siano esempi eccellenti nell’ambito femminile.

Valeria Vecchia Rossi nasce nel 1913 a Napoli, da famiglia piacentina. Il padre Ubaldo, ingegnere, si trova temporaneamente in questa splendida città per motivi di lavoro. In seguito la famiglia si trasferisce a Roma, dove si stabilisce.

Valeria frequenta il liceo artistico e in seguito, nel 1935, si diploma all’Accademia di Belle Arti.

Dimostra grande interesse per l’attività incisoria e si cimenta nelle varie tecniche: acquaforte, punta secca, litografia e acquatinta, utilizzando anche diversi colori.

Realizza più di 800 incisioni e i soggetti sono i più diversi: da soggetti fantastici si passa a paesaggi, nature morte, allegorie o figure femminili.

Si dedica all’insegnamento e poi dal 1940 al 1945 lavora per la Soprintendenza ai Monumenti di Roma e del Lazio.

Curiosa e intraprendente, si dedica anche alla pittura a olio, alla pittura murale, al mosaico e all’oreficeria. In base alle commissioni che le vengono affidate, i soggetti sono spesso legati all’arte sacra.

Partecipa agli eventi artistici del tempo: la Quadriennale di Roma, la Biennale di Milano, la Quadriennale di Torino, la Biennale di Arte Sacra. Espone varie volte alla Biennale di Venezia. Fa anche mostre personali a Roma.

Fa parte dell’Associazione Incisori Veneti (A.I.V.), presenziando alle esposizioni che questa organizza in Italia e all’estero.

Ottiene numerosi premi.

Muore ad Acilia (Roma) nel 1986.