Arte al femminile (557)

Penso che spesso gli odi tra popoli nascano dalla mancata conoscenza della reciproca cultura, intesa in senso lato.

L’arte dovrebbe essere sempre elemento di unione.

Fatma Shanan nasce nel 1986 a Julis, in Israele, nell’estremo nord del paese.

La sua è una famiglia appartenente al gruppo religioso dei drusi, musulmani di origine siriana. I drusi disconoscono i 5 pilastri dell’Islam, incorporando elementi induisti e filosofici. Credono nella reincarnazione, sono monogami e custodiscono la segretezza del loro culto, essendo stati molto perseguitati nel passato.

Sin da bambina Fatma frequenta lezioni private d’arte. In seguito, dal 2007 al 2010, s’iscrive all’Oranim Academic College di Tel Aviv, proseguendo poi la preparazione con un docente privato.

I suoi dipinti raffigurano scene dei villaggi e soprattutto tappeti tradizionali orientali, in contrasto con paesaggi occidentali.

La sua è una pittura teatrale e quasi fotografica. Ci sono: la tradizionale casa con la bianca terrazza, il campo, gli ulivi, gli interni di abitazioni. Elemento ricorrente, come già detto, il tappeto, elemento fondamentale nell’arredamento della casa drusa. Le donne se ne occupano con grande attenzione, pulendolo, sbattendolo, spazzolandolo. Serve come oggetto di preghiera e non deve essere calpestato.

Contesa dalle principali gallerie d’arte israeliane e internazionali, ha esposto a Tel Aviv, Berlino, Dusseldorf, New York e in California.

La donna è al centro delle sue tematiche pittoriche. Nei suoi dipinti e nei suoi video risuonano oltre ai ricordi personali, la storia e le tradizioni di questa minoranza di lingua araba, cui appartiene.

Ha ricevuto numerosi e ambiti premi, tra cui il premio della Fondazione Culturale America-Israele, il premio Artista nella Comunità del Ministero della Cultura e la borsa di studio Art Port.

Nel 2016 ha ottenuto un altro riconoscimento ufficiale, il premio Shiff per le arti figurative e una mostra personale al Museo d’Arte di Tel Aviv.

Attualmente vive a Tel Aviv.

Lettura stravagante

Coda di Ali Smith è un romanzo che mi ha lasciato un po’ sconcertata (pur riconoscendone il valore narrativo), perché non ha una struttura ordinata, sembra senza una logica interna e rimane sino alla fine come indefinito.

Si intrecciano vari elementi, in un’alternanza di reale e immaginario, con personaggi dell’attualità e altri che provengono da un mondo lontano, medievale, da favola.

C’è un non-senso volutamente cercato.

…” Ascolta. Tua madre, tuo padre, tua sorella e anche tu, tutti quanti. Nessuno di voi troverà nessuna risposta ne’ a casa mia ne’ in me. Qui la storia non sono io e nemmeno voi. Hai capito? Non siamo noi la storia. E comunque, una storia non è mai una risposta. Una storia è sempre una domanda”…

Ciò che comunque colpisce è l’uso delle parole, quasi un giocarci. Sull’importanza delle parole, la loro struttura, la loro etimologia si sofferma più volte la protagonista, Sandy Gray, una pittrice che riporta sulle sue tele parole policrome, estratte da versi.

…” Se le parole per noi sono vive allora anche il loro significato è vivo, e se la grammatica è viva allora in qualche modo sarà la sua capacità di creare connessioni, più che la nostra di creare divisioni, a dare energia a tutto quanto” …

Le parole per lei sono legami, hanno significati plasmabili e multiformi, basta poco per cambiarne il senso, così come curlew e curfew, chiurlo e coprifuoco, intorno a cui gioca con il pensiero.

Siamo nel 2021, in piena epidemia Covid, carico di ansia per Sandy, che ha il papà ricoverato in ospedale. La preoccupazione per il padre è dovuta anche al fatto che può vederlo solo in rari momenti e vi sono ricordi dolorosi, legati a una madre svanita nel nulla, senza spiegazioni plausibili.

In un’ambientazione scarna si svolge la vicenda personale della protagonista, con la sua solitudine testardamente difesa, la paura, la disillusione.  

Una telefonata inaspettata e per certi versi assurda, crea una svolta nella sua vita. Le viene chiesto da una vecchia compagna del college, Martina Inglis, un chiarimento, che metta in gioco le sue doti percettive. Tutto ruota intorno a un lucchetto prezioso e antico.

Da questo momento tutto cambia. I pensieri di Sandy si concentrano sulla storia.

Un po’ alla volta si ritrova una famiglia invadente e sgradita dentro casa, immersa in un circuito relazionale che finisce per accettare.

Lei dispensa consigli, racconti e recupera una certa voglia di vivere.

All’interno della storia di Sandy si inserisce quella della ragazza del passato, dalle straordinarie doti nel maneggiare il ferro e il fuoco. Probabilmente è lei la costruttrice dello straordinario lucchetto…  Sola e vittima di un abuso, pare morta, ma si rimette e, in simbiosi con un uccello, si mette in cammino e un po’ alla volta trova la propria strada e la libertà.

Sembrano racconti staccati, ma in qualche modo legano i protagonisti.

Un libro dalla scrittura densa, ironica, profonda, che comunque mi ha lasciato perplessa.

Ali Smith è nata a Inverness, in Scozia, nel 1962.

È stata due volte finalista al Booker Prize. Con Free Love (1995; Feltrinelli 2007) ha vinto il Saltire First Book Award. È autrice anche di Like (1997); Altre storie (e altre storie) (1999); Hotel World (2001); The Whole Story and Other Stories (2003); Voci fuori campo (Feltrinelli 2005), romanzo vincitore del Whitbread Award, finalista al Booker Prize e all’Orange Prize; La prima persona (Feltrinelli 2010); C’è ma no (Feltrinelli2012); Autunno (Sur2018); Inverno (Sur 2019); Primavera (Sur 2020); Estate (Sur 2021).
Ali Smith scrive anche per il «Guardian», lo «Scotsman» e il «Tls».